INTERVISTA

Livio Scarpella

di Gian Paolo Laffranchi
«Una vita per l'arte, spaziando fra Busi, Balotelli e Sgarbi»

Scultore, ma anche pittore. Soprattutto, artista. «Non potevo fare altro!», esclama Livio Scarpella con il tono - ed il sorriso - di chi piani B proprio no, nemmeno a parlarne: altrimenti non si spiegherebbe la forza di una creatività che esprime bellezza e malinconia insieme. Sposando versatilità e raffinatezza. Ora moderno ora rococò, con lampi di originalità indiscutibile quali la sua serie di statue chiamate «Ghost underground» (uomini con orecchie da asino, volti velati, teste corredate di ali). La tensione verso una dimensione altra con spunti di strabiliante surrealismo. Ghedese Doc, Scarpella ha realizzato copertine per Aldo Busi e un lavoro su commissione di Mario Balotelli. Si è guadagnato la stima di Vittorio Sgarbi (che l'ha definito «umorale e irruente come il Romanino»): non a caso a Genova una sua statua in onore di Nicolò Paganini è stata collocata all'ingresso del teatro «Carlo Felice»; non a caso al Mart di Rovereto nella mostra che celebra il bicentenario della morte di Antonio Canova sono esposte ben cinque opere sue.

Il 2022 è iniziato com'era finito il 2021: riconoscimenti a pioggia. Quanto c'è di talento e quanto di lavoro, in tutto questo?
Servono entrambi. Sono felice di potermi cimentare con opere differenti, dopodiché il mio approccio è legato al tipo di lavoro che mi viene chiesto. Quando mi viene commissionato con una certa direzione da seguire, naturalmente mi regolo di conseguenza. Per Paganini, ad esempio, mi sono posto il problema su come sarebbe stata percepita la scultura che stavo realizzando. Il suo pubblico è di estrazione varia, ognuno si fa la sua opinione, ma mi era stata indicata una via, quella di un'opera figurativa con elementi evocativi. Doveva essere un monumento e credo che lo sia.

Tempi ingrati per i figurativi.
Spesso sono considerati come dei nostalgici e basta; io non sono per niente d'accordo. Il passato è un bacino da cui attingere per rielaborare ciò che si ha in mente. In questo senso ciò che è stato è la migliore delle fonti. Una materia da riplasmare, dal punto di vista citazionistico quanto da quello stilistico. Ci si può ispirare all'arte primitiva come a quella rinascimentale, a quella medievale come a quella barocca. Ma serve cultura per fare questo tipo di lavoro.

Cultura e una curiosità inesauribile?
Senz'altro. Gli esseri umani sono stati sondati già in tutti gli aspetti possibili e immaginabili, anche sul piano dei linguaggi artistici è già stato fatto tutto. Ma la storia rimane e la si può sfruttare.

Era curioso già da ragazzo?
Assolutamente. Già alle medie, al tempo in cui la vostra collaboratrice Milena Moneta era la mia insegnante di italiano.

Un'attitudine?
Innata. Anche all'asilo disegnavo sempre. Gli altri bambini giocavano fra di loro, a me quei giochi stufavano e allora facevo i miei lavoretti: disegni, ma anche bricolage. Ho sempre avuto una manualità molto sviluppata.

In casa tifavano per lei?
Sì, mai incontrato ostacoli. Mia mamma Palmira apprezzava, mio papà Giulio si interessava, era attento e dopo le medie mi aiutò nella scelta della scuola d'arte da seguire. Purtroppo è mancato presto, 24 anni fa. Ha fatto in tempo a vedere le prime mostre che ho fatto.

Come insegnante ha avuto Giuseppe Bergomi.
Una figura assolutamente fondamentale nella mia crescita. All'istituto d'arte Caravaggio, alla Pavoniana, l'ho avuto come docente al primo anno di superiori: era l'83/84. Un incontro felice. Dopo gli studi, finita l'accademia di Belle Arti di Brera, sono diventato suo assistente. Dal '90 al '95. Poi siamo rimasti amici e lo siamo ancora. Una grande soddisfazione, adesso, ritrovarci a esporre insieme nelle stesse mostre. È capitato anche al Mart, per Canova.

Come è entrato in contatto con Busi, invece?
L'avevo conosciuto nel 2000. Casualmente, ad una mostra collettiva in città alla galleria Rivadossi. Mi ha chiesto di collaborare e ho fatto alcune copertine per i suoi libri: dalla riedizione di «Suicidi dovuti» a «Un cuore di troppo», per Mondadori.

Il primo incontro significativo?
La prima volta è venuto nel mio studio, ha rovistato nelle cose che avevo lì e ha preso un quadro: «Me lo regali?». Quel quadro è lì da tanto tempo: omoni nudi, una cosa picassiana. Busi ha apprezzato il mio stile, penso, e successivamente mi ha detto «ho una strenna per te»: il suo libro, da rendere per immagini.

L'ha contattata anche Balotelli, per la statua che voleva in casa.
Ed io l'ho scolpita come da indicazioni, senza incontrarlo mai: il mio riferimento era chi gestiva i lavori del cantiere, con il fratello di Mario a fare da tramite. Non mi ha condizionato troppo il fatto che fosse Balotelli a chiedermi un lavoro. Non sono tifoso, se incontro Cristiano Ronaldo non mi fa caldo né freddo.

Amore vero è quello che invece prova Sgarbi per la sua arte.
Lo conosco da tempo dal punto di vista artistico perché ero assistente di Bergomi e loro due si frequentavano già negli anni '80. Sgarbi non era ancora famoso, non andava in televisione, ma era stimato. I suoi servizi sulla rivista Fmr erano belli. Ricordo un numero dedicato a Domenico Gnoli, ora è in mostra alla Fondazione Prada e l'hanno scoperto in tanti. Bergomi conosceva tutti nel mondo dell'arte, Sgarbi no ma aveva mosso i primi passi presentandogli le prime mostre. Io invece ho conosciuto il professore quando da assistente mi è capitato di fare lavori di restauro. Sgarbi è un collezionista di opere, io ricevetti l'incarico di sistemare quelle di Antonio Maraini e lo feci: avevo 24 anni. Consegnammo il lavoro a casa sua a Rho e lo conobbi così.

Ci sono state altre occasioni.
Il tempo non è mancato. La mia prima mostra di pittura è stata nel '95, poi mi sono orientato sulla scultura: c'è stata l'esperienza di Italian Factory a Milano, condivisa. Ci siamo reincrociati per caso. Io non cerco nessuno, se mi chiamano significa che il mio lavoro è piaciuto.

Si sente compreso?
Nel mio ambiente è difficile trovare estimatori. Molti mi percepiscono in modo sbagliato, penso derivi dal mio modo di intendere l'arte: io conosco quella antica, mi ispiro al passato ma per studiare nuove associazioni di idee e materiali. Sgarbi ha un background variegato e profondo, quindi coglie e apprezza.

Cosa è l'arte?
È una forma di espressione. E possono essercene tante, secondo l'inclinazione di ognuno. C'è una parte istintiva che ti fa capire se sei portato per qualcosa, poi ovviamente una dote va coltivata e sviluppata. Non siamo mai il frutto semplicemente di una folgorazione, ma il risultato di esperienze e studi che si stratificano. E con il tempo anche il gusto cambia.

Brescia sarà capitale della cultura nel 2023: ha progetti?
In fase embrionale. Ma sono già in ballo e ballerò..

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