INTERVISTA

Luca Serafini

di Gian Paolo Laffranchi
«Dai giornali alla televisione ciò che conta è emozionare»

La maestra è come la mamma: capisce tutto dei suoi bambini prima degli altri.«Me lo diceva sempre la signora Giulia, mia insegnante quando facevo le elementari a Milano in via Bergognnone, alla scuola Guglielmo Oberdan: si era innamorata dei miei temi e mi mandava a leggerli nelle altre classi, cosa che odiavo. La maestra era orgogliosa e mi aveva fatto una testa così: Ricordati di me quando diventerai un giornalista, o uno scrittore».Luca Serafini è diventato l'uno e anche l'altro.

Nato milanese, bresciano dal 1977: come mai?
Mio padre Renzo doveva trasferirsi per lavoro e l'abbiamo seguito. Era dirigente di una società che realizzava pubblicazioni per professionisti, come per esempio le enciclopedie per avvocati. Era un divoratore di libri. Gli ho dedicato il mio ultimo romanzo.

«Il cuore di un uomo», Premio Zanibelli 2020. Prima di affermarsi, tanta gavetta. Anche a Bresciaoggi.
Sì, nei miei anni bresciani, fra il '77 e l'81. Avevo conosciuto Enrico Moreschi, Giorgio Sbaraini. Scrivevo di calcio, volley, basket. E quando ho iniziato a scrivere di cronaca e provincia per Bergamo Oggi, che stampava nella tipografia di Bresciaoggi, la sera prendevo foto e pagine da Bergamo e partivo per Brescia dove mi aspettava l'impaginatore Gianni Faliva: Serafini, saròm le pagine! Finivamo a mezzanotte e alle 10 del mattino avevo la riunione a Bergamo. Che vita! Guadagnavo 400 mila lire al mese.

Non solo quotidiani, fin da giovanissimo.
Sì, perché ero un free lance: stancante, ma entusiasmante. Da Radio Luna a Brescia Telenord, passando per La Notte. La provincia mi ha dato opportunità di crescita che la metropoli non mi avrebbe concesso.

Il calcio è stato anche una passione giocata. Mai voluto fare il calciatore?
No, mai pensato di fare carriera anche se ho giocato nelle giovanili del Brescia. Con me c'era Alessandro Quaggiotto, un amico: eravamo compagni di squadra e a scuola, al liceo Calini. Lui era già molto bravo, si capiva avrebbe fatto strada col pallone; io ero un mediano che correva come un pazzo, una specie di Gattuso, tecnicamente non dotatissimo. Come Alessandro ero titolare perché ero grosso. Ma ho sempre preferito fare articoli sulle partite che giocarle. Mi sono sfasciato tutti i legamenti, prima un ginocchio, poi le caviglie. La voglia di scendere in campo è rimasta e pur di poterlo fare negli ultimi anni ho giocato anche in porta: insieme agli amici di Sky e Mediaset, De Grandis, Caressa, Gherarducci, l'indimenticabile D'Aguanno, una sfida ci scappava sempre. Pioggia e neve non ci fermavano.

La passione di un Palacio. Segue il Brescia?
Certo, e spero che salga in A. Palacio è come tutti i campioni che ho conosciuto: bravi padri di famiglia, professionisti impeccabili. Si allenano più forte dei giovani e a un certo punto scatta nei loro confronti la molla dell'insegnamento: come Ibrahimovic, Palacio è un esempio per i ragazzi del Brescia. Argentino com'è, sicuramente ama René Gerónimo Favaloro.

La figura leggendaria al centro del suo ultimo romanzo. Che è un successo.
Mi mortifica aver scoperto solo 4 anni fa questo eroe, un rivoluzionario genio della medicina che ha salvato milioni di persone: filantropo padre del bypass aorto-coronarico, nemico giurato del regime peronista. La buon'anima di Cesare Cadeo mi presentò Cesare Beghi, il primario che l'aveva operato al cuore e che cercava qualcuno che scrivesse la storia del suo mentore, cresciuto in Argentina con i nonni italiani. Mi sono bastati due viaggi per conoscere i suoi cari e capire che lì è come Padre Pio, popolare quanto Maradona.

Cosa vuol dire scrivere, per lei?
È la forma più elevata che conosco per non stare da solo. Significa comunicare: suscitare emozioni, raccontare persone, fatti, luoghi. Io sento di trasmettere qualcosa di me stesso, quando scrivo. Perché racconto storie vere, mai di fantasia. Sono passato dalla cronaca alle biografie: la prima con Maurizio Mosca, mio maestro al mensile «Supergol» dal 1984 prima che passassi a Mediaset. Poi ho scritto di Schevchenko, di Martina Colombari (ero stato testimone di nozze di Billy Costacurta), di Ugo Conti e Diego Abatantuono.

Suo amico carissimo.
Sì. Un'amicizia di famiglia, discorso che vale anche per Ugo e Maurino Di Francesco: erano amiche le mamme e la frequentazione si è cementata ai tempi di Tele+, dal '93, quando venivano a vedere le partite nei nostri studi con me e Aldo Biscardi. Ho affinità con Diego: la passione per il calcio e per il cinema, per cominciare. Diego è il più formidabile autodidatta che io abbia conosciuto insieme a mia madre, nata nel '27 e passata attraverso i bombardamenti: ha dovuto lavorare presto ma non ha mai smesso di leggere. Diego divora quotidiani e documentari. Non è soltanto un grande attore: il suo sapere è sinonimo di intelligenza.

Interpreta il suo mestiere a tutto tondo: cosa la diverte fare di più?
Mi piace fare l'inviato, girare il mondo. Ho sempre amato costruire trasmissioni, fare l'autore. Calciomania, Processo del Martedì, la scheda di Guida al Campionato. Proponevo a Paolo Ziliani comici emergenti come Max Pisu, i Turbolenti, Savi e Montieri. Ho amato fare Studio Sport Xxl con Giorgio Terruzzi, rotocalco di ampio respiro che faceva ottimi ascolti il sabato sera. Ho sempre preferito stare dietro la telecamera, ma Mosca e Biscardi insistevano perché partecipassi alle trasmissioni da ospite: dicevano che funzionavo.

Funziona anche da romanziere. Prima de «Il cuore di un uomo» ha scritto «Soianìto», «La rivoluzione di Giuseppe» e «Lady Stalker»: un'escalation di riscontri.
Era Mosca a dirmi che il calcio mi stava stretto. Del resto m'interessavo di letteratura, oltre che di cinema, già da ragazzo. Ma la cronaca nera mi è rimasta dentro.

Senza dimenticare il calcio, che per lei fa rima con Milan.
Indubbiamente. Nel Milan ho fatto a lungo il tifo per Inzaghi. Che bomber è stato! Non avrei mai pensato che potesse diventare un bravo allenatore, considerato il tipo di giocatore che era, ma evidentemente la carogna che ha dentro è scattata e l'ha reso competitivo anche in questa sua nuova vita. Pippo è un allenatore feroce e insegue la terza promozione in carriera. Non sarà l'allenatore del secolo sognato da Cellino, ma le sue idee mi piacciono. E simpatizzo per il Brescia, che è pure gemellato con il Milan.

Dal Brescia al Milan è arrivato Tonali: il leader del futuro?
È già un piccolo leader. La maglia rossonera pesa, lui è stato bravo e maturo a resettare dopo una prima annata negativa abbassandosi lo stipendio per ripartire di slancio. Ha dimostrato determinazione vera: senza quella, si può combinare ben poco.

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