INTERVISTA

Lucrezia Lante della Rovere

di Gian Paolo Laffranchi
«Il teatro, la mia rinascita passata da Brescia»

Brescia, Edolo. Sui binari di un treno chiamato teatro. «L'uomo dal fiore in bocca» come compagno di viaggio. «Tornare su palco, andare in scena: come rinascere», dice Lucrezia Lante della Rovere. La pirandelliana Donna Vestita di Nero che da qui è ripartita lasciandosi finalmente alle spalle quel tunnel che per infiniti mesi non ha contemplato vie d'uscita. Santa Giulia e San Giovanni Bosco sono stati i numi tutelari di questa ripartenza targata 2022. Dal Villaggio Prealpino alla Valle Camonica, dalla città alla provincia, in una dimensione fuori dal tempo.

Trentasei anni di carriera, dal primo film con Mario Monicelli regista, «Speriamo che sia femmina», alle tappe teatrali fermate dall'emergenza e riprese quest'anno dopo lunga attesa. Com'è stato ricominciare dopo la pandemia?
Un'esperienza da brividi. Emozionante, appagante a maggior ragione perché le difficoltà, inevitabilmente, non sono mancate.

Una in particolare?
Portare avanti le date a singhiozzo, per via delle chiusure dovute al Coronavirus, ha reso più difficile trovare il giusto ritmo di recitazione.

Lo spettacolo diretto da Francesco Zecca ha mostrato agli spettatori un punto di vista altro. La donna che dallo sfondo si proietta sulla ribalta, moglie del protagonista originario qui già morto e sepolto: osare come una scelta, con decisione e con misura.
Abbiamo variato poco la sostanza, è diversa invece la modalità: le parole sono le stesse, ma mi rivolgo al pubblico. Sono state aggiunte giusto 2-3 frasi a un testo che sa comunicare con ogni generazione perché i veri classici sono così, a differenza della drammaturgia contemporanea affrontano temi universali.

L'intesa con Zecca è ormai cosa assodata.
Francesco ha saputo evitare la retorica. Il protagonista maschile filosofeggiava prima di morire; all'interprete femminile viene servita tutta una serie di domande senza risposta in cui è facile riconoscersi. Colori diversi per un monologo che è anche sfogo.

Non un'identificazione.
Io, per una scelta fatta col regista, non mi identifico con l'uomo che sente avvicinarsi la morte. Mi aggrappo con l'immaginazione alla vita di mio marito che ormai non c'è più. Ne ripasso il parlato che ascoltavo standomene in disparte, e con la memoria ne riproduco i pensieri. Frasi dette ad alta voce.

Con un punto di vista da donna.
Rielaboro i dolori che mio marito non ha saputo o non ha voluto condividere con me, perché si era ridotto a teorizzare la sua angoscia egoistica, seduto in un caffè notturno della stazione. Non mi trattava molto bene, si stizziva per la mia abitudine a seguirlo sempre a distanza, di nascosto. Io non mi approprio delle sue battute come se fossero mie; le ripeto, in modo che lui, morto, non se ne vada via del tutto. Amo il modo di lavorare di Francesco. Siamo amici anche di famiglia, la nostra simbiosi ha prodotto quattro spettacoli e varie letture.

Autore, attore, regista, Zecca ha dimostrato di saper spaziare fra mezzi e generi. Cos'altro vi accomuna?
Abbiamo gli stessi gusti, la stessa fiducia nell'altro. Lo stesso modo di vedere le cose. Abbiamo iniziato a fare le prove nel salotto di casa mia, l'anno scorso, e sinceramente durante il lockdown non ho avvertito l'urgenza di andare in scena. Con il tempo tutto si stratifica, si dilata, ma era giunto il momento di realizzare qualcosa e sono orgogliosa del risultato che abbiamo ottenuto.

Figlia di un duca, Alessandro Lante della Rovere, e di una stilista e scrittrice, Marina Ripa di Meana. Se ripensa ai suoi inizi da attrice?
In tutta onestà, non avevo il sacro fuoco della recitazione. Salire sul palco per me non era certo una questione di vita o di morte. Non è mai stato così, per me.

I riflettori non l'attiravano?
Tutto il contrario! Ero una bambina molto timida. Non volevo mai stare al centro dell'attenzione.

Come ha cominciato?
Per caso.

Aveva già conosciuto le luci della ribalta da modella. Come attrice si propose o fu cercata?
Mi chiamarono quando avevo 19 anni, per «Speriamo che sia femmina». E sono stata fortunata. Ero ancora una ragazzina che non sapeva cosa fare della sua vita, né della vita in generale.

Prima impressione?
Bello fare l'attrice! Cominciare con un regista come Monicelli è stato determinante. L'incontro con Mario è stato una svolta, sono rimasta folgorata.

E ha capito che questo poteva essere il suo destino.
Recitare, sì: ho capito che poteva funzionare.

Ha funzionato. Dal cinema alla televisione, dalla televisione al teatro: il suo rapporto col palcoscenico?
Da principio non proprio agevole: ero terrorizzata. Ma paura vera.

Della serie?
Della serie che prima di andare in scena sognavo regolarmente di andare a schiantarmi con il motorino.

Come ha risolto?
Ci ho lavorato tanto. Lavorando tanto in generale.

Adesso come va?
A gonfie vele: adesso me la godo. Amo il mio mestiere. Mi diverto con un'altra consapevolezza, oggi, rispetto a quando ero più giovane.

Le date bresciane sono state un trionfo.
Mancavo da teatro da tanto tempo e ho scoperto quanto il teatro mancasse a me. Il rischio con la pandemia è anche quello di aver paura di affrontare la vita. Mi sono commossa, perché è qui che voglio stare: sul palco, in scena, con un pubblico davanti. Una sensazione stupenda, come quella provata davanti al Garda: in occasione delle date bresciane sono stata ospite di amici ed è stato un privilegio poter respirare l'aria di questo lago. Una magìa meravigliosa

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