INTERVISTA

Paolo Calabresi

di Gian Paolo Laffranchi
«Quanto era grande Nadia! Qui mi sento sempre a casa»
Paolo Calabresi con Nadia Toffa
Paolo Calabresi con Nadia Toffa
Biascica

Calabresi all’anagrafe, romano di nascita, bresciano per affinità elettive. «C’è una familiarità misteriosa, qui, per me... Sarà per questo che mi sento sempre come a casa». Paolo Calabresi, attore trasformista capace di tutto: nella sua valigia ci sono Strehler e le Iene, «Smetto quando voglio» come «Boris» con cui è appena tornato a vestire su Disney+ i panni di Biascica, il capo elettricista più scontroso e divertente della storia. Quando sente nominare Brescia, gli brillano gli occhi. «E penso a Nadia».

Già tre anni senza Nadia Toffa. La prima cosa che le viene in mente, ripensando a lei?

La sua incredibile capacità di rivolgersi alla persone da una distanza infinitamente breve. Vicina, ancora più vicina, vicinissima, sia fisicamente sia emotivamente. Una caratteristica fra le tante che l’hanno fatta diventare una grande inviata e una altrettanto grande conduttrice delle Iene. Televisione a livelli alti, una specialità molto diversa dalla recitazione.

A chi appartiene la tv?

Non agli attori. Agli intrattenitori naturali. Non a caso i grandi presentatori sono persone che non sono mai cambiate, simili davanti ai riflettori a ciò che sono nella vita di tutti i giorni. Frizzi era così e prima di lui Corrado, Mike Bongiorno... Lo stesso Carlo Conti, oggi. Nadia il coraggio di essere se stessa l’aveva innato. La forza della natura, un’energia compressa che diventava urgenza, come se qualcosa le dicesse che il tempo a sua disposizione era poco. Quell’energia travolgeva chi subiva i suoi servizi e conquistava chi le voleva bene come me.

Eravate amici, oltre che colleghi.

Sì. Ero uno dei primi con cui si confrontava quando ne sentiva il bisogno. Mi chiedeva consigli soprattutto all’inizio, quando i suoi servizi faticavano ad andare in onda. Poi, una volta che in onda c’è andata, Davide Parenti ha capito che non poteva farne a meno. I miei consigli in realtà erano inutili: ha fatto tutto da sola.

Brescia, per la famiglia Calabresi, è anche la sua squadra di calcio.

Sarò sempre grato alla città che ha accolto così bene mio figlio Arturo. Due anni da difensore del Brescia gli sono rimasti nel cuore, ma per tutti noi è scattato subito un feeling speciale. E in questi anni, quando c’è stata la possibilità che Arturo tornasse a giocare qui, sia io sia mia moglie Fiamma ci siamo illuminati. Siamo tutti molto legati a Brescia. C’è un elemento emotivo forte, che parte da Nadia e arriva sul campo del Rigamonti.

Arturo sta facendo una bella carriera: l’estate scorsa è stato promosso in A con il Lecce.

E Brescia è la prima piazza in cui si è consacrato nel calcio che conta. Nel 2016 veniva da un’esperienza a Livorno, dove aveva fatto gol proprio al Brescia di cui a gennaio ha vestito la maglia. Peccato il Lecce non gli abbia dato la possibilità di giocare in A dopo averla conquistata sul campo. Il calcio, purtroppo, propone situazioni strane.

Caterina Guzzanti, sua compagna di cast in «Boris», l’ha definita «un sallucchione, un gigante buono, che si muove con quest’aria nobile da attore di Ronconi e il cappellino da Biascica». Si riconosce?

Perfettamente, e la ringrazio per come ha fotografato la mia doppia anima. Anche se devo precisare che tanto doppia non lo è mai stata: ho sempre amato gli attori come Herlitzka, che sanno fare qualunque cosa. Un attore deve saper interpretare qualunque ruolo, ampliare i suoi orizzonti. Chiaro, sono anche un sallucchione. Ma provengo da Strehler però, non da Ronconi.

Due modi diversi di fare (grande) teatro.

Certo, all’opposto: Ronconi sul versante più intellettuale, Strehler tutto pancia e cuore.

Con gli «occhi del cuore». Per citare «Boris» (e la sigla di Elio e Le Storie Tese). Poteva fare altro che recitare, nella vita?

Io studiavo da avvocato. Mi mancavano 4 esami alla laurea, ma mi hanno preso alla scuola del Piccolo Teatro, dov’ero andato ad accompagnare amici che volevano fare gli attori...

Un classico.

Chiaro. Così mi sono trasferito da Roma a Milano. Avevo 22 anni e al massimo ero stato in una piccola compagnia amatoriale.

Quasi quarant’anni dopo, è un attore dall’agenda piena e può festeggiare il grande ritorno di «Boris», che sta mettendo d’accordo pubblico e critica ancora una volta.Eppure fra la terza e la quarta serie sono passati 12 anni.

Ma c’era bisogno di tornare: non ne potevamo più di non farlo. Tutti noi dalla chiusura del 2010 siamo comunque rimasti dentro «Boris», di cui siamo i primi fan. Il gruppo storico, composto di amici, non ha mai archiviato il progetto. Ogni anno pensavamo quello giusto per riprendere, poi le vicende della vita hanno voluto diversamente. La malattia di Mattia Torre, una delle anime della serie, si è protratta a lungo. Mancano tanto, il suo intuito e il graffio di un personaggio come Itala. Purtroppo anche Roberta Fiorentini ci ha lasciato. Bravissimi gli sceneggiatori a rendere omaggio in modo lieve, commovente.

Ci sarà «Boris 5»?

Come nella serie: rientriamo nella grande mente dell’algoritmo. È finito il tempo in cui decidi tu cosa fare di un tuo prodotto: Biascica può diventare una principessa Disney…. Ma alla Disney, va detto, meritano applausi per la fiducia che ci hanno dato. Per fare una serie sui Sex Pistols ci vuole coraggio, per prendersi in giro su argomenti come l’inclusione e il politically correct oggi ce ne vuole anche di più.

Ci vuole Biascica, che per essere più corretto insulta dicendo «Merdu».

Autoironia: non è da tutti.

Come sta Nicolas Cage?

Sta sempre bene. Ha problemi finanziari, mi dicono, poi ogni tanto è mezzo ’mbriaco, ma quello capita a tutti... Lui non sa di avermi cambiato la vita professionale. Se non avessi avuto voglia di andare a vedere la Roma e non mi fossi inventato di farmi passare per lui, in quel famoso servizio delle Iene, Galliani non mi avrebbe mai concesso di vedere la partita accanto a lui, regalandomi una maglia del Milan e portandomi negli spogliatoi.

Era il 9 gennaio 2000.

Non avrei conosciuto Costacurta, Weah, Boban, Baresi. Non avrei parlato con Totti. Capello lo chiamò che era sotto la doccia: mi guardava con ammirazione, non sapeva che ero io a sentirmi come un bambino davanti al suo eroe. Non conoscendo più di due parole d’inglese, continuavo a ripetergli «You number one, you number one»...

E lui?

«Grazie, grazie, grazie»...

Il film che vorrebbe aver girato?

«La vita è meravigliosa», con quell’altro sallucchione di Jimmy Stewart e i suoi 4 figli. Io e mia moglie siamo fortunati ad aver formato una famiglia così numerosa.

Se fosse nato a Los Angeles?

A volte ci penso. Avrei potuto portare avanti progetti fighi, perché lì il cinema si fa in un certo modo, è più facile trovare storie scritte bene e girate meglio. Ma non mi lamento nemmeno di quello che ho fatto in Italia.

Oggi si sente più attore, conduttore o scrittore?

Il teatro è un’esigenza. Non sono uno scrittore: sono uno che ha scritto un libro, «Tutti gli uomini che non sono. Storia vera di una falsa identità», che vorrei diventasse un prodotto cinematografico o televisivo. È un crocevia: in queste pagine ho razionalizzato quello che avevo tenuto segreto anche a me stesso per anni, l’elaborazione di un lutto che diventa una spinta creativa, ludica, comica, spiegando i miei trasformismi da Cage in poi. Tutti gli uomini che non sono: tema alla base del mio mestiere.

Cos’è recitare?

Far finta di essere altri. Sembra semplice ed è complicato, ma si può dire anche l’esatto contrario: è questo il bello.

Prossimo film?

Sto girando a Fermo «La successione» con la regìa di Federica Biondi: dopo tanta commedia, un bel thriller.•.

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