INTERVISTA

Paolo Sarubbi

«Allievo di Facchinetti e Togni, suono per le vittime del Covid»

Pianista, docente, compositore. Insegnamenti, riconoscimenti e progetti. Per il prossimo, appuntamento domani nella chiesa di San Gaetano, in via Callegari, in città: qui alle 20.30 Paolo Sarubbi eseguirà «12 impressioni pianistiche» in memoria delle vittime del Covid ( ingresso libero, gradita la prenotazione all’indirizzo iscrizionisegreteriamorelli@comune.brescia.it). «Suonerò musica che ho scritto durante la pandemia», spiega. «Composizioni che ho già portato in giro in tanti centri italiani».

Nobile l’idea, riuscito l’intento.
I riscontri sono positivi, sì. Sono contento. Voglio continuare a farlo per un altro annetto, almeno. Spero di poter proporre questo concerto in tante altre sedi. Intanto, anche Brescia avrà la sua dedica dopo diversi luoghi della provincia in cui ci fosse una sala di una certa importanza e capienza: Roncadelle, Travagliato, Lumezzane.

Un tour a lunga scadenza, dunque?
Sì, spero duri un bel po’ e possa ramificarsi anche lontano da qui. Siamo nell’anno della Capitale della Cultura, un grande onore per Brescia, ma al tempo stesso è di una catastrofe mondiale che stiamo parlando. Una tragedia epocale.

L’obiettivo è non dimenticare?
Non mi interessa il fattore economico, decisamente in secondo piano: voglio riuscire a sensibilizzare l’opinione pubblica con un’opera che onori le vittime. La musica può esprimere ciò che le parole non dicono, perché non basterebbero: sentimenti profondi, indescrivibili.

Come definirebbe i suoi pezzi in questo caso?
Sono stati scritti in uno stile prettamente tonale: non sono di avanguardia, sono impressioni che potevano chiamarsi anche emozioni.

Nella scia di Lucio Battisti.
Sì: la sua canzone è passata alla storia, le mie impressioni trasmettono emozioni che possono sembrare piccole, ma descrivono quello che proviamo. Quello che abbiamo passato negli ultimi anni.

Una commemorazione?
Non soltanto: anche una speranza in un futuro migliore.

Bresciano.
D’adozione. Nato a Roma: mio papà era della provincia di Maratea, al confine tra Calabria e Lucania. Mia madre invece trentina, a due passi dall’Alto Adige.

Come sono arrivati i suoi genitori da queste parti?
Si sono conosciuti in tempo di guerra e poi si sono sposati. Mio padre, che è sempre stato un pittore impressionista...

...E lei guardacaso ora fa impressioni musicali...
... Difatti. Mio papà, però, ha trovato un impiego come direttore dell’ufficio del registro: così è stato trasferito al Nord.

Scuole in città?
Prima a Montichiari, negli anni delle elementari e delle medie, che però ho finito a Brescia. Qui ho fatto le superiori al liceo classico Arnaldo.

Il Conservatorio era a pochi metri.
Finivo le lezioni da una parte e andavo dall’altra, certo. Ho studiato composizione con Giancarlo Facchinetti, che aveva poco più di trent’anni, e privatamente con Camillo Togni, un compositore di valore mondiale, pianista davvero spettacolare. Posso dire di essere stato il suo unico allievo. Lui, come insegnante, aveva avuto Arturo Benedetti Michelangeli.

Perché ha iniziato a suonare?
Onestamente non mi ha incoraggiato nessuno: l’ho deciso io, anche contro il parere di mio padre. Lo capisco, per lui dovevo diventare avvocato. Ma ero deciso, nessuna esitazione. Quando ho iniziato da allievo di Facchinetti avevo già scritto qualcosa. A 16 anni avevo il mio album, ero convinto fosse pieno di pezzi interessanti. Lo presentai a Facchinetti.

La sua risposta?
«Mi fa piacere che lei abbia già scritto. Ho capito, ascoltando per un paio di giorni, che questi pezzi richiedevano di stare in un posto particolare: la pattumiera». Erano tentativi di un ragazzino, balbettamenti.

Scoraggiato?
No, affatto. Mi misi a studiare seriamente l’armonia, il contrappunto. Con estrema fatica ho imparato a scrivere. In un annetto sono riuscito a dare forma ai miei pensieri. Come nella poesia, devi costruire qualcosa di sensato, strutturato. «L’infinito» di Leopardi, per dire, è una costruzione pazzesca. Nella musica, in Mozart l’architettura è al massimo grado. Apparentemente semplice, in realtà difficile da concepire. Neanche un computer ci riuscirebbe. 

 

Talenti che cambiano tutto, come Jimi Hendrix.
Dopo di lui Alvin Lee, Ritchie Blackmore. Prima, gli assoli erano diversi. Se geni come Mozart, Chopin o Hendrix, ma anche Leopardi, Baudelaire e Poe, fossero vissuti a lungo, chissà cosa avrebbero potuto fare...

Lei ha scelto subito una direzione tonale?
Sì, cercando di comporre in maniera ordinata. Con Camillo Togni sono andato anche verso la dodecafonia, dopodiché ho trovato un linguaggio mio per esprimermi. Non ho rinnegato gli agglomerati dodecafonici, anzi li ho inseriti in pezzi da camera, orchestrali, ma non come sistema intero di una composizione. Dalla dodecafonia seriale mi tengo lontano: se la musica deve diventare un fatto meramente matematico, non mi sta più bene.

Come sono stati gli anni al Conservatorio da docente?
Ho cominciato facendo supplenze nelle scuole medie, quando ancora studiavo. Avevo 18 anni e c'erano studenti più vecchi di me. Ma riuscivo a creare in un clima sereno anche in classi turbolente. Dopo quella parentesi, ho iniziato a fare supplenze al Conservatorio. Quando ho finito, ho vinto un concorso e da Brescia sono stato trasferito ad Adria, in provincia di Rovigo. Nel Polesine c'è una bella tradizione musicale. Lì ho tenuto anche diversi concerti.

Se ripensa ai suoi allievi?
Ne ho avuti di vario tipo, ma geniali direi un paio... Anzi, forse uno solo: Tiziano Bedetti, un compositore che oggi ha 46 anni. Siamo diventati amici, ci diamo del tu. Insegna teoria e solfeggio al Conservatorio di Adria. Poi ho avuto una parentesi di docenza lunga, 15 anni a Verona, città della musica e del canto. Ma lì ho avuti molti studenti che trovavano ogni scusa pur di non studiare: lavoravo bene, ma solo con 5 o 6. Gli altri andavano lasciati per strada. Non è scuola dell'obbligo.

A Brescia?
Ho fatto tre anni, purtroppo proprio quelli della pandemia. Qui ho trovato studenti interessati. Sono in pensione da novembre. Non mi dispiace: mi dedico ai concerti.

Da ascoltatore, cosa le piace?
Non ho prevenzioni. C'è musica classica schifosa, ci sono pezzi pop meravigliosi come quelli di Lucio Battisti, o «Gigi» di Fabio Concato. Ho fatto concerti di musica leggera, reinterpretando colonne sonore di Ennio Morricone o eseguendo Ragtime di Scott Joplin. Non è mai il genere a fare la differenza. È, sempre, una questione di qualità..

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