INTERVISTA

Pietro Ettore Gozzini

di Gian Paolo Laffranchi
«Il basso, il contrabbasso... e un duetto con mio padre»
Pietro Ettore Gozzini:  bassista e contrabbassista, 33 anni il 26 settembre, spazia dal rock and roll al jazz, dallo swing alla poesia dialettale  FOTO DIEGO FELTRIN
Pietro Ettore Gozzini: bassista e contrabbassista, 33 anni il 26 settembre, spazia dal rock and roll al jazz, dallo swing alla poesia dialettale FOTO DIEGO FELTRIN
Pietro Ettore Gozzini:  bassista e contrabbassista, 33 anni il 26 settembre, spazia dal rock and roll al jazz, dallo swing alla poesia dialettale  FOTO DIEGO FELTRIN
Pietro Ettore Gozzini: bassista e contrabbassista, 33 anni il 26 settembre, spazia dal rock and roll al jazz, dallo swing alla poesia dialettale FOTO DIEGO FELTRIN

Ha appena preso parte a una serata molto, ma molto rock and roll alla Festa di Radio Onda d’Urto. Pubblico seduto e stanziato, ok, ma le regole post-Covid non spengono il fuoco di chi, come Pietro Ettore Gozzini, ha trovato nella musica una ragione di vita. Bassista e contrabbassista, componente di Slick Steve & The Gangsters (con cui venerdì si è esibito sul palco di via Serenissima) ma anche di altri svariati progetti, ha il pregio raro di sposare la coerenza alla versatilità. Nelle sue corde rhythm’n’blues e bluegrass, jazz e klezmer. Nelle sua dita la bravura affinata al Conservatorio e portata su tanti palchi d’Italia.

Musicista: potevano esserci altre vie?
La musica mi accompagna da sempre. Fin da quando ero piccolo.

Nato a Brescia il 26 settembre 1988. Primi dischi ascoltati?
Ricordo mio padre Vincenzo mettere i vinili sul piatto. Un impianto «Pioneer 80» con cassone e mangiacassette. Ho immagini flash: l’album Led Zeppelin II, le cassette di Crash Test Dummies e Counting Crows, «Gommalacca» di Battiato. Mia mamma ascoltava Chis Rea e Michael Bolton, invece. Ma non erano i miei gusti.

Quando ha imbracciato il basso la prima volta?
Era il 2001. Il mio inizio col basso elettrico. Sono passati vent’anni, ora che ci penso!

Perché proprio il basso?
Mi è capitato come a tanti: nella mia prima band mancava il bassista, non voleva farlo nessuno.

È successo anche a Paul McCartney.
Nel mio primo gruppo c’era quello che aveva il cugino batterista, c’erano quelli che suonavano la chitarra... Io ero nel mezzo. Approfittai della cresima per chiedere come regalo un basso elettrico e un amplificatore da 20 watt. Ora giro con un ampli da 800.

Le corde del basso sono più spesse di quelle della chitarra: un ostacolo in più per un principiante di 13 anni.
Sì, infatti da principio ho faticato un po’. Avevo preso in mano la chitarra acustica, ma non è che avessi chissà quale pratica. Il basso non è uno strumento che s’impara tanto velocemente. Idem il contrabbasso. Le corde più grosse ostacolano, bisogna dosare bene le forze e non a caso fra i 15 e i 16 anni avevo problemi di tendinite, oltre a calli e vesciche.

Quando ha deciso che la musica valeva anche gli acciacchi del mestiere?
La svolta è arrivata quando frequentavo il terzo anno di ingegneria. Avevo appena fatto «X Factor» con i John Frog.

Vi eravate fatti notare dal grande pubblico televisivo.
Da quell’esperienza sono uscito pensando «Ok, mi piacerebbe fare la rockstar». Ma non nel senso che ci si potrebbe aspettare.

Party, jet-set eccetera.
Non quello: io ho deciso allora, più semplicemente, che desideravo vivere di musica. Con la musica. E mi sono regolato di conseguenza. Nel 2010 mi sono iscritto al corso di basso elettrico all’accademia «N.a.m» di Milano, diplomandomi nel 2012. Dal 2011 al 2013 ho fatto studi di contrabbasso jazz con Carmelo Leotta, dal 2014 ho seguito il corso di contrabbasso jazz sotto la guida di Tito Mangialajo Rantzer al Conservatorio di Brescia. Mi sono laureato a pieni voti nel 2018 con la tesi «Walk with a limp: Il jazz e i metri misti» e nello stesso anno ho cominciato il biennio di specializzazione in contrabbasso jazz con Stefano Senni prima e Franco Testa poi.

In Italia non è facile percorrere una strada del genere.
L’arte in Italia paga fino a un certo punto. Bisogna riflettere sul fatto che in altri Paesi è vista come una vocazione ma anche come una professione. Purtroppo qui viene poco riconosciuta.

«Fa karate e suona la chitarra»: spesso sport e arti vengono trattate alle stregua di hobby, non si pensa che da tempo libero possano trasformarsi in lavoro.
Sì, come quelle cose che metti in fondo al curriculum, «Sono una persona estroversa, mi piacciono le camminate».

Quante band ha avuto?
Ho cominciato con gli Iridium: volevamo fare heavy metal, abbiamo cominciato all’Itis e avevamo la fissa della chimica. Dopo ci sono stati i John Frog. Quindi Slick Steve and The Gangsters.

Swing & roll, una miscela esplosiva: con Hogan e soci si è tolto grandi soddisfazioni, compreso il concerto di venerdì sera.
Assolutamente. Ed è stato bello fare 4 dischi con gli Hell Spet, così come mi diverto nei Kompro Horo con Davide Bonetti. Uno degli incontri più preziosi degli ultimi è stato quello con Andrea Van Cleef: magnifico collaborare con lui.

Si sente più contrabbassista o bassista?
Vado a momenti. A volte mi sento più quadricordista, a volte esacordista. Ho fatto anche concerti in cui suono la chitarra e canto, con la mia voce baritonale. Ho la fissa dei Jethro Tull. Volevo suonarli e li ho messi nel mio repertorio solista.

La band dei suoi sogni?
Alla voce Chris Cornell. Ma potrei dire anche Layne Staley. Alla batteria John Paul Gaster, dei Clutch. Con i chitarristi ho un rapporto conflittuale... Scelgo Scott Holiday, perfetto bullo delle giostre. E al basso John Paul Jones.

Il pezzo che le procura più godimento suonare?
«The other side of town», con Slick Steve & The Gangsters.

Come Jury Magliolo e AmbraMarie ha saputo non farsi schiacciare dal meccanismo dei talent show. Da artista, oggi, cosa sogna?
Se posso contribuire con il mio strumento alla musica che amo, ben venga. Cerco di essere più libero possibile.

Se non fosse musicista?
Avrei provato a fare nuoto. Ho la passione dell’acquaticità, ho anche fatto la traversata del lago d’Iseo. Oppure da perito mi sarei dedicato alla chimica.

Sono i suoi passatempi?
Amo anche leggere e la scuola non c’entra: ho letto tanto per conto mio, gialli norvegesi e svedesi, Nesbø e Simon Beckett ma anche Stefano Benni e «La compagnia dei Celestini». Gialli e ironia, nel mio mondo di carta.

Il concerto che ricorda più volentieri?
Quelli sul palco della Festa di Radio Onda d’Urto.

Cosa l’aspetta a settembre?
Il 25, il giorno prima del mio compleanno, parteciperò a una serata di «Goi de contala?», al Prealpino: con mio padre Vincenzo porterò un pezzo dell’ultima edizione, «Mà De J-òm», cioè «mani degli uomini». Mio papà scrive poesie in dialetto, io le ho musicate e Daniele Gozzetti ci ha chiamato per la rassegna.

Com’è nato il tandem col babbo?
Un mio regalo, è stato. Ossia: l’anno scorso per i suoi 69 anni gli ho organizzato la festa di compleanno dicendo che avrei suonato un po’ di pezzi nuovi. Non sapeva che mi ero fatto dare di nascosto dalla mamma i file word delle sue poesie, di cui è tanto geloso. Mi sono chiuso in studio da solo, ho inciso voce, chitarra e basso acustico. Poi alla festa, invece di pezzi nuovi miei, sorpresa: ho portato le sue poesie in musica. Non ha nemmeno pianto!

Cosa farà per i settant’anni?
Il prossimo regalo sarà salire sul palco assieme. I Gozzini, padre e figlio.

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