Nato per il palcoscenico, fine dicitore fra poesia e prosa, votato al giornalismo come alla recitazione. E simbolo di brescianità per svariate generazioni ormai. Sergio Isonni sta per compiere novant’anni, ma mai come nel suo caso l’età è semplicemente un dettaglio.
Passa da uno spettacolo all’altro.
Questo mese ho due debutti, a Corte Franca sabato con uno spettacolo su Luigi Tenco, che conobbi da giovane intervistandolo, un artista anomalo, cantautore suo malgrado. A Brescia il 25 novembre ho una rappresentazione dialettale. Il 5 dicembre porterò il mio tributo a John Lennon a Paderno Franciacorta. Il 6 sarò a Padenghe.
Quanti spettacoli avrà fatto in tutto?
Settemila, ma anche di più. Ringrazio mia moglie Flora, paziente con me anche come segretaria di questa agenda infinita. Dovrò rallentare prima o poi. Non fermarmi! Rallentare.
La soddisfazione maggiore?
Vincere all’inizio del millennio il premio teatrale di Schio: un riconoscimento a cui ambiscono tanti attori, in quest’ambito come un Oscar a Hollywood. Ma i premi lasciano il tempo che trovano, anche se fanno piacere. Quello che conta di più è l’applauso del pubblico. Sentire che è lì per te, che determini le emozioni di chi ride e piange.
Come ha cominciato?
Da ragazzo, come cantante d’opera. Sono partito da basso, più che dal basso.
I suoi genitori avevano attitudini artistiche?
Mio padre camionista, mia madre badava alla famiglia. Io sono nato con una voce, dicono, bella. Studiavo al Teatro Grande, ho debuttato nel Rigoletto. Fui scoperto in chiesa, a Santa Maria in Calchera. Una ragazza già in arte dopo avermi sentito mi chiese «Ma perché non vieni a lezione dalla mia maestra?». Lo feci.
E la maestra?
«Questo è un mezzo fenomeno», disse. Poi il maestro Cittadini mi ha voluto al Teatro Grande. Ero giovanissimo. A 15 anni avevo già fatto il mio primo concerto. Peccato che a un certo punto mi sia ammalato gravemente alle corde vocali. Non parlavo più. Carriera finita, almeno quel tipo di carriera. Per fortuna ho trovato una dottoressa molto in gamba che mi ha fatto fare logopedia e riprendere piano piano. Un mezzo miracolo.
Quanto conta il talento?
Tanto. Io ho fatto tanta pratica, ma ho la fortuna di apprendere molto in fretta. Anche in televisione è andata così. Il talento è qualcosa che hai l’obbligo morale di sviluppare, se ne sei fornito. C’è chi nasce con un dono e chi no. È Madre Natura a decidere chi è Maradona, Pelè, Baggio e chi no. Questione di destino. Ma è un dono che non si può sprecare.
Radio Monte Maddalena ha accompagnato la sua vita. Come ha iniziato a trasmettere?
Mi chiesero «Ne sa di lirica? Venga a fare un programma da noi». Sono ancora lì, da 47 anni. Era il 1976, primo giorno di aprile. Avevo un grande seguito di sportivi il lunedì. Quante trasferte con mezzi di fortuna, quante storie con gli amici di Bresciaoggi Sergio Zanca e Giorgio Sbaraini che si metteva la macchina da scrivere sulle ginocchia e creava i suoi pezzi. Facevo radio e Telenord.
A chi deve dire grazie?
Il direttore artistico di Telenord era Costanzo Gatta, per cominciare. Lui mi ha portato in teatro, dandomi i fondamentali. Faceva Capitan Fracassa, occorrevano tanti interpreti. Mi chiamò per chiudere un buco, mi ritrovai protagonista. Devo ringraziare anche Franco Bertan, che mi ha fatto avere la grande popolarità con «I coniugi Bricchetti». Grazie a Matteo Treccani, con cui sono felice di rendere omaggio a Tenco. Grazie a Maria Teresa Giudici, fra i fondatori della Compagnia della Loggetta come Gatta e Bruno Frusca della compagnia La Betulla di Nave, che mi ha fatto interpretare i grandi personaggi spaziando fra Cechov, Pirandello, O’Neill.
Quale pièce le è rimasta nel cuore?
«Zio Vanja» di Cechov. «Lungo viaggio verso la notte» di O’Neill. «L’uomo e la sua morte» di Giuseppe Berto. Rimpiango di non aver fatto Shylock e Re Lear.
Fra i personaggi che ha intervistato, chi l’ha colpita?
Tanti. Penso ai politici di una volta, a prescindere dagli schieramenti: Craxi, Andreotti, Spadolini che era culturalmente inarrivabile. Ma non era questione di appartenenza, quei personaggi erano davvero di un altro livello. Alto livello. Poi voglio citare il cardinal Re, che in un’occasione festosa invitò tutti i presenti a star bene a sentire la mia voce. Un filosofo come Severino, che mi volle con sé a cena. E personaggi dello spettacolo come Nadia Cassini. Su di lei ho un rammarico: la feci piangere.
Come?
Dicendole che si era fatta conoscere per il suo sedere. Mi dispiace ancora oggi, anche se era vero.
Tanti ultraottantenni oggi sono ancora in carriera: il segreto?
La mia generazione ha sofferto. Non solo ha visto: ha vissuto la guerra. Tu adesso passi dalla galleria, che fu un luogo di dolore e paura. Venivi fuori dal rifugio a mezzogiorno, Dopo 10 minuti suonava l’allarme e dovevi rientrare subito. Ho visto la cupola del Duomo in fiamme. Abitavo in via Fratelli Dandolo, in pieno centro; mio padre disperso in Grecia; usciti dal rifugio mano nella mano io e mia madre trovammo più niente. Casa distrutta. Solo i pompieri impegnati con le scale a corda: «Cosa dobbiamo portarvi giù?». Quello che c’era rimasto... Poco più di niente. Per questo piango quando vedo le immagini di Gaza. Ricordo quando mangiavamo il pane mischiato alla polvere di marmo di Rezzato. Se sopravvivi alla guerra non ti arrendi più davanti a niente. Quelli come me hanno visto tutto. Di cosa dobbiamo avere paura?
Se riavvolge il nastro del suo percorso artistico?
Ho avuto poche serate infelici. Di me hanno scritto bene tanti critici italiani, ma ho anche recitato tanto all’estero, a Locarno, Bellinzona, a Barcellona, a Madrid, a Santander, a Parigi dove mi è toccato ripetere lo spettacolo, al Centro di cultura italiana. Ho aperto l’Anno Mariano a Lourdes. Un motivo d’orgoglio, come aver recitato nella casa di d’Annunzio a Pescara e in quella di Pirandello ad Agrigento.
Attore, cantante, giornalista: chi è Sergio Isonni?
Uno, nessuno, centomila.