INTERVISTA

Viola Graziosi

di Gian Paolo Laffranchi
«A Brescia il teatro che amo Recitare è una vocazione»

Si definisce «un'atleta del cuore». Decatleta, come minimo: attrice per natura, Viola Graziosi alterna teatro classico a ricerca contemporanea; ha esordito giovanissima sia sulle scena sia nel cinema; è una delle voci di audiolibri più amate in Italia. Lanciata da una laurea specialistica in studi teatrali alla Sorbona, premiata come «Actress of Europe 2020» all'International Theater Festival, è legata alla nostra città dove martedì alle 20.30 sarà in scena al Sant'Afra per il debutto nazionale del nuovo spettacolo prodotto dal Centro Teatrale Bresciano «Agnello di Dio», di Daniele Mencarelli. Regia di Piero Maccarinelli, con Fausto Cabra, Alessandro Bandini e Ola Cavagna (repliche fino all'8 maggio).

Pronti?
Quasi... Martedì lo saremo di sicuro. Non vedo l'ora di incontrare il pubblico, nella convinzione che l'altra metà del lavoro su questa produzione si svolgerà attraverso le repliche, in uno scambio di energia con gli spettatori. Un confronto importante che ogni sera fa crescere e anche variare lo spettacolo, rendendolo più vivo, facendo accadere quel che prima non c'era.Felice? Molto. Anche perché ritrovo Maccarinelli, con cui ho debuttato a teatro in «Una sera a Sorrento» prima del ruolo di Ofelia nell'«Amleto» di Carlo Cecchi.

È figlia d'arte: Paolo Graziosi, mancato 3 mesi fa, è stato un grande attore. Non è facile svolgere lo stesso mestiere di un genitore bravo e famoso. Agli inizi la incoraggiava?
Avevo detto a mio papà che volevo fare l'attrice, l'ho sempre saputo. Avevo 16 anni, «Una sera a Sorrento» aveva un cast d'eccezione, mio padre compreso, e io volevo assistere alle prove: fui cooptata in quanto bilingue, italiana e francese, nel ruolo di un pittore. Recitai un paio di minuti: mi tremavano le gambe, andò tutto bene ma poi il tremore si estese a tutto il corpo, dall'emozione. Mi diedero calcetti, «porta bene!». Ero l'ultima arrivata e l'esordio era stato positivo.

Da lì non si è fermata più. E ora riparte da Brescia.
Brescia pur offrendo grandi bellezze e altrettante possibilità mantiene una dimensione umana, di vicinanza. E non è un dettaglio che possa vantare una grande storia anche teatrale. Il legame è nato da una serata al chiostro del teatro Mina Mezzadri, post pandemia.

«Shakespeare for dummies. Sogno di una notte di mezza estate» con Graziano Piazza, suo marito.
Nonché attore storico del Ctb. Io a Brescia ho fatto anche Teatro Aperto più volte e «Clitemnestra» di Luciano Violante. Adesso sono fiera di interpretare la prima prova drammaturgica di Daniele Mencarelli.

Già vincitore del Premio Strega Giovani 2020 con «Tutto chiede salvezza». Lo spettacolo parla dei valori e della loro trasmissione ai giovani, di educazione delle nuove generazioni e della grande difficoltà con cui i padri e le istituzioni scolastiche cercano di comprendere i figli.
Un passaggio di consegne imprescindibile. Ho compagni di lavoro stupendi e questo per me è fondamentale. Servono qualità attorali e prima ancora umane per cementare il tutto.

Com'è stato tornare a recitare dopo il lockdown?
La pandemia è stata uno shock enorme e il teatro è fra le categorie più penalizzate. Ci siamo inventati mille cose per il qui-ed-ora, per poter recitare anche durante il lockdown. Torniamo sul palco più consapevoli. Il Covid può aver scoraggiato parte del pubblico, ognuno ha le sue priorità. Per me è il teatro è priorità.

Cos'è il teatro?
È cura dell'anima. Soltanto il teatro fa ridere e piangere veramente insieme. È questo tutto che diventa un uno. Non è rimedio, ma pratica; ci può aiutare nella condivisione, toccando anche temi come l'infinito. Una catarsi: siamo dentro qualcosa, non siamo soli, giochiamo di squadra.

Per questo un'attrice è un'atleta del cuore?
Sì. Io alleno corpo, mente, emozione.

Atleta e cittadina del mondo: nata a Roma, cresciuta in Tunisia...
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.e ho vissuto a lungo a Parigi, al Conservatoire national supérieur d'art dramatique, in quello che noi chiamiamo accademia. Una decina d'anni facendo avanti e indietro, poi nel 2010 sono tornata a vivere stabilmente in Italia. Non ho radici, ma ho avuto l'onore e la gioia di scoprire e scegliere luoghi che sento miei come Brescia, grazie al Ctb. La scelta naturalmente dev'essere reciproca.

La sua prima esperienza da regista è stata dirigere Paolo, suo padre, e Graziano Piazza, oggi suo marito, ne «L'uomo in fallimento» al Piccolo Eliseo di Roma. Nel cinema ha debuttato con Francesca Comencini, quindi è stata diretta da Pupi Avati e ha vinto il premio miglior attrice non protagonista al San Benedetto Film Fest per «The fragile friend» di Salvatore Vitiello. Tante esperienze, altrettanti traguardi. Cosa richiede il suo mestiere, più di tutto?
Mio papà mi ha insegnato che questo lavoro è una vocazione. Tengo a dire che 10 giorni dopo che era mancato ho ripreso ad andare in scena con «Clitemnestra» e il Ctb. Era la prima volta senza di lui, ma era come se fosse ancora più presente. Non è stato un maestro, ma un artista: si è approcciato a me fin da subito come a una potenziale collega. Non si è posto dall'alto e mi ha reso libera, rimandandomi un'immagine di me attrice oltre che figlia.

Teatro, cinema, televisione, audiolibri: cosa preferisce?
Sono parti di un intero. Ogni disciplina ha la sua specificità, ognuna nutre l'altra e si completano. Il teatro le racchiude tutte. Si fa insieme e anche chi recita riceve qualcosa dal pubblico ogni volta. C'è una nascita e uno sviluppo. A differenza della non-vita dei social a teatro non ci sono filtri, siamo tutti smascherati e vulnerabili. Dobbiamo conquistare ogni volta il pubblico che ha fatto lo sforzo di venirci a vedere. Anch'io sono pubblico, spesso: so che deve essere lo spettacolo a venire incontro a chi assiste.

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