SILVIO CAMPARA

Ho rivoluzionato le sneaker le scarpe diventano cultura

di Francesca Lorandi

La rivoluzione gentile della moda è iniziata. A promuoverla è un imprenditore che crede nei valori prima che nel fatturato, nelle connessioni tra persone, nell’emozione che genera un prodotto e nelle mani che lo creano. Silvio Campara è nato a Lugagnano di Sona, 42 anni fa, da una famiglia di artigiani («mio padre faceva il pavimentista»), in un contesto di industrie e di botteghe, in un’area «dove gli errori contano più delle riunioni». Un imprinting che non se ne è mai andato. La sua è stata una scalata continua, da cameriere che in piena notte, a fine turno, puliva l'argenteria in un ristorante di lusso nel cuore di Milano, a commesso, e poi manager, dirigente sempre in viaggio da un angolo all’altro del mondo. Fino a diventare il Ceo di una società che, lo scorso anno, è stata valutata 1,3 miliardi di euro: la Golden Goose, il brand di sneaker di lusso creato vent’anni fa a Marghera da Francesca Rinaldo e Alessandro Gallo.
Campara in questi ultimi anni ha accelerato il percorso di sviluppo della società. A lui, artefice di questa scalata, i numeri piacciono fino a un certo punto, tuttavia servono a dare la dimensione di questa società che preferisce definire «collettivo», per sottolineare come le persone siano sempre al centro. Dentro i muri aziendali e dei negozi, e soprattutto fuori. «Nella mia vita», racconta, «ho sempre immaginato un mondo in cui la gentilezza fosse la parola chiave, in cui vincesse chi se lo merita e chi non vince ha comunque la possibilità di avere voce. Ho viaggiato tanto ma l’idea di diventare leader di questo collettivo mi ha molto ispirato: non è business, non è una cosa da slide e power point, ma si tratta di riuscire a entrare nella loro anima, non essere una comparsa. Nelle altre aziende fanno un lavoro, io voglio farle esprimere come persone».

Eppure il suo percorso è iniziato come «uomo di numeri»...
Ho studiato alla Bocconi e facevo il cameriere al Savini di Milano, dove dovevamo passare l’aceto nell’argenteria alle due di notte, quando il locale chiudeva. Ma anche questo mi ha insegnato molto. Ho iniziato poi come commesso in una realtà, la Alexander McQueen, che allora era una startup con 36 dipendenti e 35 milioni di fatturato, ora ne fa quasi un miliardo. Avevo una direttrice del negozio pazzesca, una sarta che mi insegnò tantissimo. Passai poi ad Armani, un’azienda importantissima di cui conservo un ricordo molto bello. Lì il mio capo aveva riconosciuto in me un «qualcosa» che nemmeno io mi rendevo conto di avere, aveva intuito un valore spronandomi a evolvere pian piano.

Di cosa si occupava?
Erano i primi anni Duemila e facevo il commerciale, mi occupavo del retail per il Nordest Italia di Armani Jeans. La svolta arrivò un giovedì mattina, dopo sei mesi: il mio capo mi chiama e mi dice che dovevo partire per Hong Kong. E lì iniziava l’esperienza più difficile della mia vita, sebbene entusiasmante. In quattro anni aprii novanta negozi da un lato all’altro dell’Asia. Prendevo migliaia di voli, facevo una vita che mai avevo nemmeno sognato. Ma a un certo punto mi chiesi: ma tu come stai, come ti senti? Ecco, mi resi conto che non ero un manager vocato al fatturato, quello che mi mancava era la possibilità di generare valore, per un marchio e per tutte le persone che lavorano in un’azienda e i clienti.

Era il momento di un nuovo grande cambiamento. Quando arrivò?
A quel punto mi imbatto in Roberta Benaglia, che a soli 34 anni era a capo di un fondo di investimento (Style Capital Sgr, ndr), che aveva appena acquisito Sundek, il brand di costumi: c’era il prodotto e c’era anche il fondo, quindi mi convinsi a lasciare la mia bella vita e il network pazzesco che avevo in Armani per iniziare questa avventura. Da Tokyo mi trasferisco a Campi Bisenzio, a Prato. Ero entusiasta per questa nuova sfida, pagata un terzo rispetto al mio stipendio precedente, dove non c’era nulla di glam, di luccicante. Ma era quella che volevo. E si rivelarono tre e anni e mezzo complicatissimi e nonostante questo una storia bellissima, durante la quale il fatturato passò da 16 a 25 milioni. A quel punto Benaglia mi fece un’altra proposta, una nuova sfida.

È l’inizio dell’avventura in Golden Goose. Il «suo miglio» come l’ha spesso definito, l’opportunità e la sfida di creare valore all’interno della moda. E qui ha iniziato la «sua» rivoluzione”?
Benaglia mi presentò i due fondatori, Francesca e Alessandro e sì, fu subito amore. Oggi Golden Goose fattura 265 milioni, è stata valutata lo scorso anno 1,3 miliardi di euro, è presente in Asia, Europa, Medio Oriente e Americhe, con oltre 150 negozi diretti. Però sono convinto che il nostro obiettivo, che dovrà essere quello di tutto il comparto moda, sia spostare l’obiettivo dal prodotto verso il consumatore. Mentre fino a ieri tutto era legato al concetto di comunicare un prodotto, venderlo, posizionarlo, ora è necessario pensare al consumatore. Finalmente il consumatore è davvero al centro e finalmente crea il contenuto. Non è semplicemente impegnato solo a comprare ma vuole essere parte di questa cosa.

Lei parla di community, quella che lega i suoi ragazzi ai consumatori, agli appassionati del brand Golden Goose, oggi riconosciuto per i suoi prodotti fatti a mano in Italia e dall’aspetto distressed, distribuiti nelle boutique più esclusive del mondo attraverso una strategia di comunicazione basata, appunto, sul passaparola. Come si crea questa connessione?
La «rivoluzione» è iniziata nel 2018. Ci siamo resi conto che il prodotto non poteva bastare: dovevamo riuscire a relazionarci con le persone, spiegare loro perché noi siamo speciali. La società è composta per lo più da under 30 e questo rende più facile la comunicazione. Ma abbiamo voluto fare di più, raccontare attraverso i ragazzi e così abbiamo creato un trend gigantesco facendo delle sneaker un elemento culturale, più di un indumento o di un accessorio.

È rivoluzionario anche dire che fare l’artigiano «è cool» e che lavorare in fabbrica è una cosa bella. Forse in questa frase c’è molto delle sue radici, tuttavia ha voluto dimostrare con un progetto concreto questa sua idea, trasformando l’idea tradizionale di «artigiano».
Tanti ragazzi non sanno cosa c’è dietro la nostra sneaker, ma la adorano. Abbiamo cercato qualcuno perché facesse il processo al contrario, e da consumatore diventasse artigiano: caso ha voluto che incontrassi un ragazzo veronese, un «malato» di Golden, ex pr di un noto locale. Volevo imparasse la manualità di una sneaker per restituire poi questo sentimento, questa conoscenza, ai nostri clienti nel mondo. Volevo parlasse con i nostri clienti per conoscerne la storia e tradurla artisticamente sulle loro sneaker: il primo amore, il primo contratto o un viaggio indimenticabile. Questo sarebbe stato il punto di partenza per personalizzarla, e farci così entrare nel cuore della nostra gente. E da lì è difficile uscirne. Dopo di lui e come lui, oggi abbiamo più di 50 sneakers maker, da Cina, Giappone, Corea, America: artigiani e artisti che aiutano a tradurre le emozioni e le esperienze di vita dei clienti nelle sneaker che diventano così personali, uniche. E questo è uno degli elementi chiavi di Golden Goose, siamo gli unici a fare una co-creation basata sui sentimenti. Una volta essere artigiani era ispirarsi a un prodotto, oggi essere artigiani è ispirarsi alle persone.

È la rivoluzione gentile della moda?
Per le nuove generazioni essere gentili è il nuovo modo di essere cool. Non importa essere importanti ma rilevanti.

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