C’era una volta un paziente a cui non piacevano i supereroi

C’era una volta un paziente che tutte le volte in cui si sottoponeva a una visita ambulatoriale soleva anticipare il medico. Si siede, appoggia documenti e carte degli esami e prima che il medico inizi la consueta interrogazione dell’anamnesi il paziente esordisce: «Dottore, come sta, come si sente?». «Mi scusi, ma questo tipo di domanda dovrei porla io a lei che viene a farsi visitare», risponde un po’ disorientato il medico. «Capisco il suo stupore, dottore, ma vede io prima di iniziare la visita ho bisogno di sapere come sta lei. Le spiego. Poniamo il caso che lei mi tratti in maniera un po’ brusca o sbrigativa, ecco se io so che lei ha avuto una giornata pesante riesco a far pace con la sua ruvidezza. Se, per esempio, lei non mi ascolta con attenzione, travisa le mie parole e io sono a conoscenza del fatto che è stanco sono pronto a scusarle sviste o anche errori, sono pronto a lasciarmi interrompere ogni qual volta le mie divagazioni portino fuori strada la sua ricerca. Se lei, al contrario, si atteggia come se fosse un supereroe io inizierò a pretendere da lei non solamente medicine perfette ma anche la luna. Dunque, se può sia sincero e sia così buono da dirmi come sta». Si narra che a questo punto i medici rispondessero in modi tra i più svariati. Chi si arrabbiava e ingiungeva al paziente di farsi gli affari suoi e di «andare da un altro medico». Chi sorrideva con superficiale pietà e rispondeva: «Bene, grazie. Ora iniziamo la visita». Chi asseriva con sincerità che era stata una giornata difficile, ma che era contento di poter aiutare le persone a stare meglio e che tornando indietro rifarebbe esattamente lo stesso percorso, con la stessa fatica. Ogni volta il paziente si trovava dinnanzi una risposta differente, profonda, superficiale o elusiva. Iniziava a fidarsi di più, anche se la risposta era superficiale o elusiva era pur sempre una risposta, un principio di umana interazione, una condivisione sul filo del rasoio. Sicuramente c’erano medici che si nascondevano dietro un banale «sto bene», altri che al contrario estremizzavano aspetti negativi, altri che aprivano il cuore con semplicità, altri ancora che non rispondevano. Quello che il paziente notava è che nessuno rimaneva indifferente e anche nel silenzio mostrava un tratto del carattere, o una paura, o una dolcezza. L’obiettivo non era quello di intenerire oppure di consolare, ma semplicemente di venire curato al meglio, di trovarsi di fronte un essere umano, non un supereroe. Del resto, il paziente fin da bambino nutriva una particolare antipatia per i supereroi perfetti senza errore e senza macchia, freddi e banali anche nel loro fare il bene. Nel medico cercava, insieme alla competenza del caso, tratti di umanità gloriosa ferita o stanca che fosse, cercava il volto dietro la maschera convinto che a partire dal volto sarebbe stato più facile per entrambi interagire, comprendere e magari anche diventare amici. *Aurora Ghiroldi è laureata in filosofia, collabora con l'Istituto Ospedaliero Fondazione Poliambulanza

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