Le morti bianche e gli operai ridotti a merce

A volte non tornano. Il loro corpo è orizzontale, freddo. Un telo anonimo copre come fosse un cumulo di fieno, qualcosa di oblungo. A volte, rivoli di sangue, precisi come fiumi emissari, abbandonano il corpo. A volte, in qualche grigio condominio, alla periferia di una città, in un bilocale, una donna attende un uomo che non tornerà più. E mentre la minestra si fredda, o il lesso si presenta come un iceberg sporco, in un oceano di brodo rappreso, il pensiero della donna corre ai pretesti, alle spiegazioni razionali. Uno straordinario non previsto, un guasto all’automobile, un cicchetto al bar con gli amici, un ritardo causato dalla lite del giorno prima, una vecchia fiamma incontrata per caso. E gli occhi corrono allo specchio, ai capelli arruffati, alle rughe intorno agli occhi, all’orologio, che implacabile ricorda che l’ora del rientro è passata da un pezzo. E improvvisamente il telefono trilla, nel silenzio denso e nebbioso. E la voce, dall’altro capo del filo, è cortese e impersonale. Il contenuto del messaggio è sempre lo stesso: «Signora ci dispiace comunicarle che suo marito è rimasto vittima di un tragico incidente». La frase tragico incidente viene ripetuta in Italia circa 1500 volte all’anno. La globalizzazione, non considera più gli operai esseri umani, ma merce che produce merce. Pedine di legno sulla scacchiera degli incendiari. Schiavi, se non di nome, di fatto. Destinati al precariato, o soggetti al nuovo caporalato, vecchio retaggio, risorto come un demone per sfamare il Moloch del nuovo capitalismo. Un capitalismo che ha ingoiato gli ultimi brandelli della sua etica, defecando nuovi capitani d’industria, velenosi e taglienti come rasoi arrugginiti. E gli operai continuano a morire; caduti, stritolati, soffocati, bruciati, schiacciati, folgorati, storpiati, fatti a pezzi, avvelenati. Sono i più fortunati. Gli altri muoiono lentamente, di tumore al pancreas, ai polmoni, alle ossa. Muoiono, nell’indifferenza cinica dei nuovi Dei del profitto. Non ci sarà mai una Guernica della classe operaia, nessun cantautore parlerà più di loro, nessuno forgerà medaglie alla loro memoria. Io li voglio ricordare tutti con una poesia di Carl Sandburg, emblematica nella sua semplicità, un J’accuse senza appello. E ai benpensanti collusi, ai cristiani presunti, voglio regalare una frase, che contiene l’amara constatazione di uno studente di 19 anni, che condannato a morte dai nazifascisti così si rivolge agli amici nella sua ultima lettera: «…sappiate, che ciò è accaduto, perché voi non ne avete voluto sapere». «Incrociale le braccia sul petto – così./ Raddrizzale ancora un poco le gambe – così./ E chiama il furgone che la riporti a casa./ Sua madre piangerà, e così le sorelle e i fratelli./ Ma, tutti gli altri sono salvi: è lei, la sola ragazza/ della fabbrica, che non fu fortunata/ nel saltar giù, quando il fuoco fece irruzione./ È stata la mano di Dio, e la mancanza d’uscite di sicurezza». Lettera firmata

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