Rimangono le criticità da superare

di Lettera firmata

Egregio direttore, e così davvero presso il Pronto Soccorso degli Spedali Civili sono arrivate le «crocerossine contro l’ansia». Speravo fosse una boutade dettata dalla contingenza mediatica del momento, che al massimo avrebbe suscitato ilarità tra noi addetti ai lavori: in fondo, appena qualche mese fa l’azienda aveva annunciato che il nuovo servizio di bed management avrebbe ridotto sensibilmente i tempi di attesa e migliorato la qualità dell’assistenza... invece. Fatti salvi l'apprezzamento e la gratitudine per i volontari che si sono resi disponibili, cerco di condividere le mie perplessità e le mie preoccupazioni. Primo. Innanzitutto, l’umiliazione, gratuita e immeritata, dei lavoratori del Pronto Soccorso. Che sebbene mai menzionati direttamente, ne escono come incapaci di essere umani, di accogliere pazienti e familiari, di saper comunicare adeguatamente, di fare bene il loro lavoro. Perché sennò chiamare qualcun altro a farlo? Incapaci, o impossibilitati perché oberati, provati, pressati, decimati, ipersfruttati, poco cambia; l’immagine che resta è quella dei lavoratori brutti e cattivi da una parte, e dei volontari belli e buoni dall’altra. Basta fare un giro sui social tra i commenti sotto gli articoli sul PS. Eppure si tratta degli stessi lavoratori che, non più di un anno fa, erano elogiati e vezzeggiati, oltre che per la loro professionalità, proprio per la loro umanità. Oltre al danno di non aver mai visto corrispondere alle parole un riconoscimento professionale o sociale concreto, anche la beffa di essere lasciati intendere in un certo qual modo come parte del problema, invece che potenziale fattore di soluzione. Secondo. La direzione dell'ospedale sceglie di non intervenire su alcuna delle criticità note del PS e dell’azienda: l’organizzazione, le infrastrutture, le dotazioni, le risorse, la gestione, le procedure interne. Forse rimanda tutto questo a quando ci sarà il nuovo padiglione di emergenza-urgenza, o forse ritiene che le cause dei problemi siano tutte esterne; non lo sappiamo. Comunque sia, chiama qualcuno da fuori a rendere tutto, semplicemente, più accettabile. Chi va in PS aspetterà sempre dodici, ventiquattro o 48 ore su una barella lungo il corridoio, ma avrà qualcuno a tenergli la mano. Terzo. Così agendo, la stessa direzione lascia intendere una propria incapacità, che per estensione passa come l’incapacità del servizio pubblico. È come se dicesse: «Non ce la facciamo; non abbiamo le forze, o le risorse, o le competenze, per cambiare le cose, per migliorare il sistema». E addirittura: «Nemmeno per metterci una toppa; bisogna che qualcuno da fuori ci aiuti». Dopo le cooperative, le multiservizi, le agenzie di somministrazione, gli appalti e le esternalizzazioni, la privatizzazione del pubblico fa un ulteriore passo avanti, aprendo le porte al (sedicente) no-profit. Non è un bel segno, in tempi che a Roma e a Milano non si aspetta che l’occasione per svendere tutto ai privati. O vogliamo credere alla storiella della partnership pubblico-privato? Quarto. La presa in carico di un paziente e di chi lo accompagna inizia dal momento in cui accede al PS e prosegue fino al momento della dimissione (e in tanti casi anche oltre), comprende aspetti medici e infermieristici, assistenziali, sociali, culturali, di relazione, a volte addirittura spirituali; è compito di equipe composte da diverse e complementari professionalità, ogni operatore vi contribuisce con le proprie competenze e peculiarità - tecniche e anche personali. Pensare di spacchettare questo processo per demandarne parti diverse a soggetti diversi (perché di questo non potrà che trattarsi) significa avere in mente un modello di sanità vecchio di cinquant’anni. Lettera firmata

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