L'INCONTRO

Pupi Avati, un bambino discolo di 75 anni

di Elia Zupelli
La maturità: «Mia madre regalò una stilografica d'oro al presidente di commissione». L'università e il primo voto taroccato per non deludere la famiglia
Pupi Avati, un bambino discolo di 75 anni
Pupi Avati, un bambino discolo di 75 anni
Pupi Avati, un bambino discolo di 75 anni
Pupi Avati, un bambino discolo di 75 anni

Lo diceva Picasso: «Ci vogliono molti anni per diventare giovani». Pupi Avati, che evidentemente le citazioni colte riesce a interpretarle con garbo d'antan e una leggerezza autoironica fuori dal comune, ieri pomeriggio - ospite nell'aula magna della facoltà di Economia per gli Unibs days - ha fatto molto di più: è tornato bambino riavvolgendo le sue 75 primavere suonate, poi è invecchiato nuovamente, raccontando la vita e il sogno del cinema attraverso un lungo flashback autobiografico di straordinaria intensità. Fatto di episodi, sussurri, aneddoti popolari, comicità «ubriaca» e stile da vendere.
Come fosse un «Ritorno al futuro» condito con ragù alla bolognese e servito nel secondo dopoguerra italiano, giacché «la vecchia signora coi fianchi un po' molli, col seno sul piano padano ed il culo sui colli» - anche se Avati abita a Roma da 40 anni - rappresenta il filo conduttore di ogni trama retroattiva, di ogni racconto sul grande schermo, di ogni suo innamoramento artistico. Ieri come oggi. I primi anni di scuola: «Un rapporto pessimo. Tra me e i professori c'è sempre stata complicità nel rifiuto reciproco». La maturità: «Allora per studiare si prendeva la metedrina. In realtà l'esame lo passai perché mia madre regalò una stilografica d'oro al presidente di commissione». L'università: avanti e indietro in treno da Firenze, facoltà di scienze politiche, il primo voto taroccato - un 26 – per non deludere la famiglia. Quindi, mentre rintoccano gli anni '60, ecco i primi timidi flirt con il mondo dell'arte.
MA LA FASCINAZIONE per Pupi non è subito il cinema. «Nottambulo, pallido, trasgressivo: mi travestii da jazzista per piacere alle ragazze e diventai il migliore clarinettista di Bologna». Fino all'arrivo di un certo Lucio Dalla, che entra nel gruppo quasi per scherzo e finisce per fare le scarpe al futuro regista. «Era un nanerottolo odioso, mi pareva un musicista modestissimo, ma ogni sera suonava meglio - riavvolge il nastro Avati -. Con la sua genialità mi ha umiliato, zittito, messo all'angolo. Ho persino pensato di ucciderlo, buttandolo giù dalla Sagrada Familia di Barcellona, perché si era messo in mezzo tra me e il mio sogno (l'episodio in realtà è un divertissement frutto della fantasia di Pupi, che Dalla condivise di buon grado e fece suo trasformandolo in leggenda, ndr.). Ma mi ha insegnato una cosa straordinaria: la differenza tra passione e talento». Al resto pensano «8 e mezzo» di Fellini, «Il posto delle fragole» di Bergman e un impiego come rappresentante di surgelati che gli leva il fiato...
La scintilla con la settima arte detona come una bomba: all'inizio sono titoli tipo «Balsamus, l'uomo di Satana» o «Thomas e gli indemoniati», annus mirabilis 1970, tra horror e grand guignol. Quindi i brividi cult de «La casa dalle finestre che ridono» e l'evoluzione verso un cinema più maturo, dai toni spesso biografici, agrodolce, talvolta amaro, sempre dalla parte dei secondi. Un viaggio che Pupi Avati racconta al pubblico con ipnotica poesia, ora punteggiando storie dal set, ora sorprendendo con parallelismi comportamentali tra storie di attori a un casting e stereotipi umani nella vita reale.
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