Staminali, la frontiera della lotta al diabete

di Lisa Cesco
Il tavolo dell’assemblea annuale dell’Associazione Diabetici bresciani ieri alla facoltà di Medicina FOTOLIVE
Il tavolo dell’assemblea annuale dell’Associazione Diabetici bresciani ieri alla facoltà di Medicina FOTOLIVE
Il tavolo dell’assemblea annuale dell’Associazione Diabetici bresciani ieri alla facoltà di Medicina FOTOLIVE
Il tavolo dell’assemblea annuale dell’Associazione Diabetici bresciani ieri alla facoltà di Medicina FOTOLIVE

Guarire dal diabete è un sogno grande come quello di mettere i piedi su Marte. Ci vuole ricerca, tenacia e soprattutto una navicella spaziale che permetta di arrivare fin là. «Oggi questa astronave per raggiungere Marte ce l’abbiamo, si chiama terapia cellulare, ed è destinata a rivoluzionare il panorama della medicina».

Il professor Lorenzo Piemonti, direttore dell’Istituto di ricerca sul diabete dell’istituto San Raffaele di Milano, racconta le nuove prospettive della ricerca scientifica alla platea di malati e non in occasione dell’assemblea annuale dell’Associazione Diabetici della provincia di Brescia. «Fra i nostri compiti rientra anche questo: informare, divulgare, sensibilizzazione sulla patologia, perché la lotta al diabete si combatte anche sul fronte della conoscenza», ricorda Edelweiss Ceccardi, presidente dell’Associazione. Tutta colpa del sistema immunitario che va in corto circuito e inizia ad attaccare quella minoranza di cellule del nostro pancreas (sono solo l’1-2 per cento) che producono ormoni, fra cui la preziosa insulina che regola il valore della glicemia nel sangue. Quando, come accade nel diabete di tipo 1, queste cellule vengono colpite e affondate dalla reazione autoimmune, ci si deve affidare alle infusioni esterne di insulina. «Purtroppo non esiste nulla capace di mimare al meglio il lavoro di queste cellule, nemmeno la migliore terapia insulinica», ammette Piemonti.

SOLO UN QUARTO dei pazienti raggiunge l’obiettivo di un controllo glicemico ottimale, mentre dai 3 ai 13 anni di aspettativa di vita vengono rubati dalla malattia, a paragone con le persone sane. Trovare la via per nuove possibilità di cura diventa ancora più importante se si considera che il diabete è un’emergenza mondiale e un problema sociale, con 415 milioni di malati nel mondo e il 12 per cento delle spese sanitarie assorbite dalla malattia. «Una la stiamo già percorrendo, ed è quella del trapianto di isole pancreatiche (dove risiedono le cellule beta che producono insulina), prendendole da un donatore di pancreas e infondendole nella persona malata – spiega Piemonti -. La terapia cellulare già adesso è in grado di guarire il diabete e avere un impatto positivo sulle sue complicanze, ma comporta due problemi: i donatori di pancreas sono limitati, e per evitare il rigetto è necessaria l’immunosoppressione, che ha rischi di tossicità e infezioni». Oggi nella routine clinica il trapianto cellulare viene proposto solo a sottogruppi selezionati, i malati con diabete non controllabile che non risponde alle terapie, perché si tratta di bilanciare costi e benefici per la salute. «Ma per il futuro le cose potrebbero cambiare grazie a nuove “sorgenti” cellulari, le cellule staminali». Le staminali embrionali, che sono pluripotenti, si possono differenziare in cellule beta che producono insulina, ed essere trasferite nel paziente in un piccolo contenitore-device simile a una carta di credito. Questo sistema è stato sperimentato su 34 pazienti negli Usa, si è dimostrato sicuro ma sull’efficacia c’è ancora da lavorare, per questo entro la fine di quest’anno entrerà nel vivo un secondo studio clinico sull’uomo condotto in diversi centri europei fra cui il San Raffaele.

Molte aspettative vengono riposte dai ricercatori anche sulle staminali “pluripotenti indotte”, che non comportano i dilemmi etici delle embrionali perché ricavate da cellule adulte. «Non so ancora quando arriveremo alla cura, ma so che ci arriveremo: il diabete sarà presumibilmente la prossima patologia curata con le staminali», promette Piemonti. «È vero, stiamo oltrepassando i confini del “naturale”, e ciò comporta implicazioni biologiche ed etiche, ma non dobbiamo avere paura se sappiamo darci regole e limiti».

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