Vita avventurosa
di una «ragazza»
del primo secolo

di Sara Centenari
La statua in bronzo venne portata in trionfo il 22 luglio 1826Nuova «regia» di luci per l’opera
La statua in bronzo venne portata in trionfo il 22 luglio 1826Nuova «regia» di luci per l’opera
La statua in bronzo venne portata in trionfo il 22 luglio 1826Nuova «regia» di luci per l’opera
La statua in bronzo venne portata in trionfo il 22 luglio 1826Nuova «regia» di luci per l’opera

Nascosta per secoli in un vuoto, tra il tempio e il colle, con tutti i suoi segreti, dentro un'intercapedine fisica e temporale. Per secoli. E poi ritrovata dagli Schliemann bresciani dell’ottocentesco Ateneo di scienze lettere e arti, che fecero un po’ meno fatica del visionario tedesco tra le rovine dell’omerica Ilio ma firmarono comunque un’impresa gloriosa, con gli scavi archeologici del 1826. E ora è sotto i riflettori del mondo, ammirabile da ogni lato, in una vertigine di contemplazione che i primi osservatori hanno descritto in termini entusiastici. Vittoria è di nuovo in piedi, a mostrare la grazia ineffabile che dal panneggio corre alle grandi ali. Quelle ali finalmente riconosciute come sue. Da sempre. La Vittoria Alata è un bronzo del I secolo dopo Cristo, realizzata con la fusione a cera persa indiretta. Una trentina i pezzi diversi fusi uno per uno e saldati insieme, con una fascia ad agemine di rame e argento a cingere i capelli. Intarsi di metalli dagli effetti policromi che simulano forse mirti e piccole rose. NAPOLEONE III arrivato a Brescia prima della battaglia di Solferino volle visitare il «museo patrio» per vederla, perché il tesoro che Brescia torna ad ammirare era famoso in tutta Europa: così bella e raffinata nei gesti la trovò l’imperatore dei francesi nel giugno 1859 che chiese di ottenerne una copia, la copia del Louvre. E due enormi vasi di porcellana di Sèvres del museo del Risorgimento di Brescia sono le testimonianze della sua gratitudine. La rinnovata passione moderna per l’arte classica inondò di fama quella stessa Vittoria (la nike del mondo greco) che in precedenza, in quanto simbolo pagano, fu forse deliberatamente nascosta e solo per questo salvata: i segni del politeismo greco-romano venivano distrutti, l’opera è il solo bronzo di quel tipo creato in un’officina del Nord Italia scampato alla fusione. Con il lavoro di ricostruzione certosina del pittore Luigi Basiletti in tre anni vennero individuati i siti per la campagna di scavo dell’Ateneo coordinata da Girolamo Monti, Antonio Sabatti e dal pittore, che riportarono alla luce l’area del Foro romano, finché la sera del 20 luglio 1826 intravidero l’ammasso di bronzi preziosi. La mattina dopo l’intercapedine venne ripulita dalla terra che l’avvolgeva e furono riportati alla luce 95 pezzi tra i quali sei teste d’età imperiale e la «figura muliebre» dalle braccia staccate, alta quasi due metri. Il piede doveva poggiare su un elmo di Marte, il braccio sostenere uno scudo col nome del vincitore (il committente?). Campane a festa: la Vittoria fu portata sul carro tra due ali di folla, seguita dalla banda. «- Che dunque - dice - pensasti, o vergine/cara, là sotto ne la terra umida/tanti anni?» le chiese Carducci mezzo secolo dopo. Ottocentesco è anche l’innesto metallico cui si agganciarono le braccia: l’intervento sul manufatto è stato uno dei passaggi più delicati del restauro iniziato nel luglio 2018 e finito a ottobre 2020. Anche i rischi legati all’interazione dei materiali di riempimento come pezzi di legno e frammenti di terracotta, legati da un impasto, destavano preoccupazione. La rimozione controllata ha richiesto più di sei mesi e ha seguito i principi dello scavo stratigrafico archeologico: quasi 100 i chili rimossi dalla cavità interna. Fondamentale la fotoablazione laser, anche per recuperare la doratura, oltre alla sabbiatura criogenica, che con microparticelle ghiacciate di Co2 raggiunge aree impervie come quelle nel panneggio. Una trentina gli esperti al lavoro, dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, di Brescia Musei, del Dipartimento di Ingegneria meccanica e aerospaziale della Sapienza di Roma e dell’azienda Capoferri: tutti chini su quest’opera che si mosse anche nel 1940 per sfuggire ai bombardamenti dal cielo e si rifugiò nella villa Fenaroli di Seniga. Eccola oggi nitida in una plasticità che l’allestimento esalta da ogni lato, ma con la struggente crepa nel braccio, le poche dita mancanti e alcune stratificazioni che devono restare per raccontare tutta la sua storia, fino in fondo. •

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