«Nostro padre morto sul lavoro Adesso pretendiamo la verità»

di Lino Febbrari
Hasan ed Emine, due dei figli del kosovaro morto sul lavoroZyber Curri in un cantiere
Hasan ed Emine, due dei figli del kosovaro morto sul lavoroZyber Curri in un cantiere
Hasan ed Emine, due dei figli del kosovaro morto sul lavoroZyber Curri in un cantiere
Hasan ed Emine, due dei figli del kosovaro morto sul lavoroZyber Curri in un cantiere

È stato soprattutto il certosino lavoro di investigazione svolto dai sindacalisti della Fillea Cgil, spulciando centinaia di documenti e ricostruendo il percorso lavorativo dello sfortunato protagonista, ad abbattere un po’ per volta il muro di omertà che per mesi ha ostacolato la ricostruzione della verità attorno all’infortunio mortale sul lavoro avvenuto il 12 dicembre scorso in un cantiere in provincia di Como. QUEL GIORNO Zyber Curri, un 48enne originario del Kosovo e residente da una ventina d’anni con la famiglia a Edolo, poco prima di mezzogiorno morì sul colpo scivolando sul terreno ghiacciato e finendo in una profonda scarpata mentre con dei colleghi costruiva un impianto idroelettrico sopra Carvagna, un paesino al confine con la Svizzera. L’ennesima morte bianca; che rischiava pure di restare senza responsabili. Infatti, gli investigatori hanno faticato non poco a individuare il datore di lavoro del kosovaro: nessuno voleva farsi carico delle pesanti responsabilità della sua fine. Si è cercato di var credere che quel giorno Curri si trovasse in quell’area quasi come un escursionista che per caso si era infilato nel cantiere. E assurda è stata anche la modalità con cui i familiari hanno saputo del suo decesso: a informarli non sono state le autorità nell’immediatezza, ma a notte fonda alcuni conoscenti. «Siamo ancora amareggiati per averlo saputo ormai a notte fonda, quasi 12 ore dopo la morte di mio padre, dai nostri compaesani - afferma la figlia Emine -. Dopo la disgrazia ci siamo affidati alla Fillea per avere giustizia». Ci sono voluti quasi sei mesi, tra mille difficoltà e silenzi omertosi, per riuscire a far luce parzialmente; in particolare per dare un nome all’impresa per la quale l’operaio lavorava. «CI SIAMO subito attivati attraverso il nostro ufficio legale e attraverso il patronato - ricorda Donato Bianchi, segretario comprensoriale della Fillea Cgil di Valcamonica, che da subito ha preso a cuore la vicenda - per far riconoscere ai familiari i diritti di questo lavoratore e per accertare le responsabilità di quanti operavano in cantiere». Nel frattempo la magistratura iscritto alcune persone nel registro degli indagati e la famiglia Curri, la moglie Hirmet, il figlio Hasan e le figlie Emine, Natyra e Bandha (quest’ultima minorenne), insieme ai sindacalisti della Cgil, si augura che ora siano chiarite le cause del dramma. ALLA FINE degli anni ’90 Zyber Curri, che per un certo periodo aveva imbracciato le armi combattendo con l’Uck, aveva abbandonato il suo Paese in guerra, e come molti altri connazionali aveva scelto l’Italia per allontanarsi dall’orrore. Dopo aver girovagato per qualche tempo era arrivato a Edolo, dove con la sua famiglia si era integrato senza alcuna difficoltà. «Il nostro papà era un grande lavoratore - conclude Emine -, anche quando era in Kosovo si adattava a fare di tutto. In sua memoria noi reclamiamo giustizia e andremo avanti finché non l’avremo ottenuta». •

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