STORIE DI ARTIGIANI

Giuseppe Rivadossi: «Adesso prevale la tecnologia ma io voglio recuperare l'umano e comunicare solo cose belle»

di Chiara Comensoli
Il maestro del legno, dalle prime esperienze al brand famoso in tutto il mondo: «Costruire significa anche contribuire a definire l'ambiente come visione armonica»
Giuseppe Rivadossi, scultore di Nave, ha compiuto 88 anno lo scorso 8 luglio
Giuseppe Rivadossi, scultore di Nave, ha compiuto 88 anno lo scorso 8 luglio
Giuseppe Rivadossi, scultore di Nave, ha compiuto 88 anno lo scorso 8 luglio
Giuseppe Rivadossi, scultore di Nave, ha compiuto 88 anno lo scorso 8 luglio

Fra gli anni ’60 e ’70 scolpiva. La funzionalità, adagiandosi sul corpo nudo della mera bellezza, giunse solo dopo, su richiesta dei clienti. Ora che gli impegni della gestione dell’impresa ricadono sui figli Emanuele e Clemente, Giuseppe Rivadossi è tornato all’origine e, mattino e sera, sorveglia il lavoro di tutti, riponendo sé e la propria arte scultoria in un angolo del mondo al quale ha dato vita.

Ma prima di raggiungerlo, attorniato dalle proprie creazioni, Clemente racconta l’ultima delle collaborazioni del marchio Rivadossi: «Stiamo lavorando per una grande casa di moda milanese, che sta operando un rebranding di tutti i suoi negozi. Per la parte in legno ha chiesto a noi di fare gli appendiabiti, i tavolini, le sedute che compariranno all’interno dei punti vendita sparsi in giro per il mondo».

E riguardo a uno dei pezzi in esposizione che suscita curiosità: «Questo è un pezzo storico che proponiamo, degli anni ’60/’70. È un tavolino. Qua si avverte ancora tanto l’influenza della scultura e dell’architettura. È la rappresentazione di una città, con strade e cunicoli che passano attraverso la matericità del legno». Ma quanto ci si impiega a produrre un tavolino simile? «Almeno un mese. Non siamo la Fiat, l’ambiente è piccolino». Nel frattempo Giuseppe Rivadossi emerge dal proprio paradiso terrestre, fatto di legni chiari della fascia temperata; Eden rivestito di noce, rovere, tiglio, acero, frassino e altre essenze.

Quando è nata la sua passione per la scultura?
A 12/13 anni ho iniziato a lavorare con mio padre. Lui era un falegname, ma aveva una grande sensibilità e una mania: tutti i suoi figli dovevano assolutamente studiare musica, il pianoforte in particolare. Quindi sono cresciuto in un posto in cui la poesia era pane quotidiano. Lavorare con lui significava apprendere il valore della vita vissuta, ma anche quello di una bellezza intesa non in senso formale, ma come un fatto armonico. L’estetica come forma di partecipazione alla vita.

Quindi lei sa suonare uno strumento?
Sì, il pianoforte, come tutti i miei fratelli. Ritengo però sia stato uno sbaglio di mio padre quello di far studiare a tutti lo stesso strumento. Qualcuno dei miei fratelli ha fatto il decimo, l’esame più alto del conservatorio. Uno si è diplomato a Milano, un altro a Parma; un altro, che purtroppo è morto, era andato persino a perfezionarsi con i maestri russi del pianoforte di fine ‘800. La musica è quel ramo della poesia che informa tutto il nostro vivere e il nostro lavoro.

Qual è la sua fonte di ispirazione?
La vita. L’amore. Sento il bisogno di recuperare e ritrovare l’ umano, perché quest’aspetto oggi è trascurato a causa del prevalere della tecnologia, fredda, fatta solo di cose che funzionano meccanicamente. Io voglio vivere per comunicare cose belle. E se la musica dipendeva dalla volontà di mio padre, la scultura dipendeva dalla mia.

Qual è il passaggio della lavorazione del legno che le dà più soddisfazione?
Costruire vuol dire partecipare anche alla definizione dell’ambiente come fatto umano. Come fatto di servizio e visione armonica.

Qual è il lavoro più bello che ha fatto?
Forse tutte le cose sono sempre un po’ insufficienti, però ne abbiamo fatte tante. Di sicuro avevano sempre un aspetto poetico.

Qual è la cosa più difficile del suo lavoro?
Far quadrare i conti. Perché per fare cose belle bisogna dedicarci tempo, risorse e non aver paura di niente. Bisogna avere il coraggio di rischiare.

Quando qualcuno guarda uno dei suoi pezzi vede subito quei solchi che sono caratteristici del suo lavoro. Da dove deriva questo tratto?
È semplice: il materiale legno appartiene alla natura; ha tutti i segni delle stagioni. Queste righe, la fibra del legno, si forma attraverso il clima e gli umori della natura. L’industria del legno del dopoguerra non ha tenuto conto del corpo del legno, che ha una propria bellezza e realtà. E ha utilizzato l’impiallacciatura, che è una cosa di sei decimi di millimetro di spessore prima di essere lavorata. Quelle cose lì le facevano solo per attirare l’attenzione dei poveri che volevano farsi una casa. Invece io ho capito che il materiale legno è già una presenza straordinaria. Per cui usarlo rispettando le sue qualità naturali era una delle cose che mi ha interessato di più: lavorarlo con sensibilità era già un’operazione di comunicazione poetica importante.

C’è un artista che preferisce?
Nell’ambito dell’arte abbiamo avuto dei grandi autori, come abbiamo avuto anche cose molto alla buona. Ma i grandi autori li troviamo nelle epoche passate, specialmente nell’Alto Medioevo e nel Rinascimento. Tutti questi movimenti avevano la capacità di fare delle cose che erano utili e che, contemporaneamente, comunicavano bellezza. Ovvero il rapporto armonico con il creato. Per l’architettura più recente, apprezzo Saarinen e Le Corbusier.

Cosa consiglierebbe a un giovane deciso a intraprendere una carriera nell’artigianato?
Oggi manca una cultura del fare. La bellezza e la misura non ci sono più. Si cercano cose «a effetto». Purtroppo siamo in una fase di grande decadenza. I giovani che vogliono fare qualcosa di bello devono prima di tutto scoprire e capire tutto quello che è stato fatto nella storia. È molto importante guardare allo spirito con cui si costruiva, partendo dai primi lavori che l’uomo preistorico ha lasciato e arrivando poi ai grandi movimenti del XVI secolo. Fatti enormi della storia dell’uomo che la meccanica sta distruggendo.

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