STORIE DI ARTIGIANI

L'orafa Beatrice Zambelli: «Viene premiata l’originalità: un bene per il mondo dell’artigianato»

di Chiara Comensoli
«Il mio oro? E' etico: so da dove proviene, so che non vi è stato sfruttamento alcuno e, in più, tiene traccia di quanto ne ho acquistato finora»

«Io lavoro solo perché sono un’artigiana, altrimenti la concorrenza delle altre gioiellerie mi avrebbe già tagliato le gambe»: così dice, un po’ amaramente ma piena di riconoscenza, Beatrice Zambelli. Un odi et amo fra lei, incastonata come una perla all’interno del proprio laboratorio in via Alessandro Lamarmora (Piano Bi), e l’arte orafa, stretta oggi dai lacci della serialità industriale.

Come si diventa maestri orafi?
Dopo essermi diplomata al liceo artistico di Brescia avrei voluto fare il fabbro, in realtà, ma non riuscivo a trovare qualcuno che fosse disposto a insegnare a una donna. Cercando su internet ho trovato delle scuole di oreficeria. Ne ho scelta una a Roma: ti sedevi al banchetto e c’era il maestro orafo che ti faceva fare tutta una serie di esercitazioni. Poi ho fatto la gavetta vecchio stile nei laboratori altrui, imparando molto.

Qual è la sua tecnica preferita?
La cera persa, senz’altro, perché è un procedimento molto antico. È microscultura. Come tu immagini una statua lavorata con l’argilla devi immaginarne una minuscola a forma di anello, orecchino o quello che vuoi che viene lavorata con la cera. Viene fatto poi un calco in gesso e la fusione del metallo - di solito oro o argento - avviene lì dentro.

Qual è il materiale che preferisce lavorare?
Il materiale più bello da lavorare è l’oro, perché non presenta le difficoltà tecniche dell’argento. Poi non ossida mai. L’argento però, avendo un costo più contenuto, consente di sperimentare di più con le idee e le forme. Per quanto riguarda la pietra, direi il diamante. Perché si forma a temperature altissime sotto terra: è una creazione fantastica della natura. Però dal punto di vista economico è molto inflazionato, si ha l’idea che ci sia solo quello, ma il mondo dei minerali e delle gemme è infinito.

Sostiene l’origine etica delle materie prime. Cosa significa?
Siamo ancora pochi in Italia e sono l’unica a Brescia a essere dotata della certificazione rilasciata dall’organizzazione internazionale Fair- mined, che lavora con piccole cooperative di minatori, per lo più in Centro e Sud America e in Asia. Certifica il prodotto lungo tutta la filiera: in sede di estrazione, ad esempio, assicura la tutela dei diritti del lavoratore e quella dell’ambiente. L’estrazione è molto impattante: dopo averla conclusa il terreno va pulito e nuovamente ricoperto. Tramite questa certificazione il mio oro è etico: so da dove proviene, so che non vi è stato sfruttamento alcuno e, in più, tiene traccia di quanto ne ho acquistato finora.

Perché non ci sono molti orafi interessati a questa certificazione?
Un po’ perché è una cosa che si conosce ancora poco. Un po’ perché ha un costo. Tanti, poi, non credono a questi progetti dell’eticità. Però devo dire che sto avendo un grande riscontro, soprattutto sulle fedi di matrimonio e l’anello di fidanzamento. Cose sulle quali magari si è disposti a spendere di più, potendo sapere che la tua promessa d’amore non è stata estratta in una zona di guerra e non è passata per le mani di bambini sfruttati. Ho clienti che vengono da me
proprio per questo: il che, per il mio business, è positivo. Ma, dal punto di vista della sostenibilità e dell’etica, è un vero peccato.

Qual è la sua maggiore fonte di guadagno?
Io, principalmente, riparo e modifico oggetti. Perché ormai ci sono tantissime gioiellerie commerciali dove trovi di tutto, cento volte le cose che ho qua io, però non sanno fare una riparazione, una saldatura. La tua collana non ti piace più? Io la fondo e te la rifaccio. E lavoro tantissimo così. Poi capita che qualcuno si presenti con un’idea o uno schizzo di qualche gioiello chiedendomi di riprodurlo.
 

Ha mai ricevuto richieste un po’ strane?
Tempo fa un tizio voleva un anello con la croce celtica e un altro mi ha chiesto di incastonare una moneta di Mussolini. Non ho fatto nessuna di queste due cose. Molto più interessante la richiesta di un ragazzo, venuto con la foto di un anello nella teca di un museo: voleva che lo rifacessi. Un’altra volta un tipo mi ha chiesto di fargli un ciondolo a forma di fallo. A ciascuno il suo... 

Chi sono i suoi clienti?
Gli uomini che vengono in gioielleria devono fare dei regali. Non sanno niente, non hanno la minima idea di quello che possa piacere alla propria ragazza, però ti guardano con occhi grandi e dicono “Ti prego aiutami”. Le donne son sempre molto decise, invece.

Di cosa va più fiera?
Di aver partecipato a una mostra di oreficeria contemporanea a Milano. È stato un orgoglio per me essere pubblicata su un catalogo. Poi anche di un gioiello in particolare che ho replicato e venduto tantissimo; era nato da un errore, in realtà: volevo fare un cerchio sopraelevato ma quando l’ho battuto sul fuso ha preso la sua forma. E mi è piaciuto molto.

Come vede il lavoro artigianale nei prossimi anni?
C’è sempre più gente che è stanca di avere le cose uguali a quelle di tutti gli altri. Di questo monopolio dei super marchi che mette in circolo roba che poi ha un valore effettivo scarsissimo. La gente ora mi sembra sia più aperta alla ricerca dell’originalità e dell’unicità e ha iniziato a capire che quello artigianale è un acquisto sano, un tipo di socialità sana: che fa del bene alla comunità e non alla multinazionale americana. E il covid è stato uno spartiacque. Lo Stato, però, non ti aiuta. Le spese sono molto alte e mi rendo conto che per un giovane che vuole aprire un’attività così sono tanti anni di sacrifici.

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