CENTRODESTRA

L'ascesa di Meloni e i moderati senza casa

Senza dubbio sarà stata una casuale concomitanza temporale, ma la contemporaneità tra l’assise di Fratelli d’Italia a Milano – in cui Giorgia Meloni ha cercato di proporre una svolta all’impostazione del suo partito sempre più in ascesa – e la decisione di Forza Italia di schierarsi alle imminenti elezioni amministrative di Verona con il candidato Flavio Tosi ha evidenziato l’ennesima – se mai ce ne fosse stato bisogno – silente distanza che sta vivendo il centrodestra in questo ultimo scorcio di legislatura. Nulla di nuovo sotto il sole, si potrebbe obiettare. In effetti i tre principali partiti del centrodestra non hanno mai governato assieme in questi anni: nel Conte I solo la Lega era entrata nell’esecutivo, nel Conte II erano tutti all’opposizione, con Draghi la frattura si è fatta più sensibile, con Forza Italia e Lega che hanno sostenuto la sua candidatura, mentre Fratelli d’Italia unico partito all’opposizione. Neppure i buoni propositi del nuovo anno e le promesse della gestione di un’elezione del Presidente della Repubblica coesa sono state mantenute, in quanto ciascuno ha preso strade e strategie differenti. Di contro, la gestione delle alleanze amministrative aveva sempre dimostrato un’intesa più strutturata: sia nelle regioni in cui il centrodestra governa, come nella maggioranza dei Comuni, i tre partiti tendenzialmente viaggiano appaiati e uniti. È vero che a Verona il sindaco uscente Sboarina è passato in corso d’opera da civico a iscritto a Fratelli d’Italia.

Ma è altrettanto vero che la scelta di Fi di non sostenere all’ombra dell’Arena il candidato più rappresentativo del partito della Meloni in questo turno elettorale si accompagna alle forti tensioni che si stanno manifestando pure in Sicilia. La ricandidatura del presidente siculo Musumeci, spalleggiata da Meloni, non trova l’accordo di Lega e Fi, acuendo tensioni che sembrano sempre più alimentarsi piuttosto che sopirsi. Tanto che la stessa Meloni ha di recente paventato di legare le scelte del voto siciliano a quello lombardo del ’23, ventilando di mettere in discussione strategie e alleanza in essere. Sullo sfondo, il voto politico, a cui mancano circa 365 giorni, che si preannuncia complicato, se non fosse altro per la riduzione del numero dei parlamentari, i collegi elettorali ancora da disegnare e una ipotetica legge elettorale da varare, incubo di tutti i leader. È chiaro come la crescita esponenziale degli ultimi mesi di Fdi abbia modificato gli equilibri tra le tre compagini, spostando gli assetti e mettendo in discussione la linea da percorre nel prossimo futuro (riforme costituzionali, strategie energetiche, posizionamento in Europa, alleanze con i partiti degli altri Paesi dell’Ue). Non bisogna poi dimenticare come l’altrettanto palese – quasi endemica – frantumazione del centrosinistra spinge alcuni movimenti di questa coalizione a strizzare l’occhio ai più scettici. Non sono pochi quelli che guardano con piacere all’idea di un ritorno a un grande centro, quale casa dei cattolici e dei moderati di entrambi gli schieramenti. In piena prima Repubblica Pietro Scoppola spiegava come nell’instabilità governativa si fondava la stabilità del modello italiano. Ma stabilità non significava capacità di programmazione e di visione futura, che oggi più che mai sembrano necessarie. In Germania, qualora dalle urne non esca un chiaro vincitore, prima di governare i partiti devono stilare un programma condiviso e siglarlo davanti a un notaio, spesso spendendo mesi per delicata e fondamentale procedura. Riflettiamoci.

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