LA RECENSIONE

«Monica», libertà e famiglia in un ritratto all’americana

Trace Lysette, protagonista del film «Monica» di Andrea Pallaoro

Strano come «Monica» di Andrea Pallaoro abbia vinto il premio Arca Cinema Giovani a Venezia come miglior film italiano: ovviamente non è in discussione la qualifica di migliore, quanto quella di italiano, perché il film è tutti gli effetti americano. Un ottimo esempio di cinema indipendente d’oltreoceano con non poche frecce al suo arco, in primis l’interpretazione di Trace Lysette. Girato a Cincinnati, con un cast interamente americano e un regista, Andrea Pallaoro, che vive tra New York e la California, il film si affida a scelte formali di notevole impatto, oltre che alla consistenza e all’importanza dei temi.

Pallaoro opta per un formato più piccolo e quadrato che consente alla protagonista di «riempire» sempre l’inquadratura con la sua notevole presenza scenica, condivisa soltanto con i famigliari. «Monica» è il ritratto di una giovane donna bella e sola alla quale possiamo attribuire un passato solo lavorando sugli indizi, perché la messa in scena poggia quasi esclusivamente sull’implicito. È una donna che ha molta cura del proprio corpo, peraltro messo in mostra in chat erotiche; che telefona a un uomo di nome Jimmy, al quale professa il suo amore; che decide a un certo punto di tornare in seno alla famiglia perché la madre, dalla quale era stata cacciata, è ormai morente.

A questo punto il film diventa l’illustrazione di un rapporto madre-figlia quanto mai controverso: Monica si confronta con quella donna malata che non aveva accettato le sue scelte di vita e di libertà sessuale, con il fratello, la cognata e i nipotini, senza peraltro rinnegare il suo passato. Un passato che fatalmente ritorna, come quando, dopo l’ennesima, inutile telefonata a Jimmy, accetta la corte - diciamo così - di un camionista conosciuto on the road.

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