Partita a due con il morto

Partita a due con il morto

Ora che ne guardava il corpo riverso sul pavimento e, come un'onda di risacca, sopraggiungeva una calma muta che scacciava poco per volta - ma con la gradualità inesorabile delle maree - la feroce e incontrollabile esplosione di pochi minuti prima, il prof. L.M. si stava lentamente acquietando.Forse proprio in questa improvvisa condizione di calma, mentre si chiedeva cosa avrebbe potuto fare, si accorgeva di come non ci fosse più nulla, ormai, da fare. E si elencava, invece, ciò che mai avrebbe dovuto fare prima, e una cosa in particolare, e guardava la sua vita scorrergli davanti rapidamente. La osservava, la propria vita, mentre si stava allontanando per sempre da lui come in un brutto sogno, come in un addio straziante e immotivato e ingiusto, con gli occhi di un Orfeo che non poteva accettare che, per uno sguardo involontario, quasi - forse solo un riflesso condizionato - Euridice dovesse restare lì dov'è stata condannata. Certo, in fondo lo sguardo proibito lui effettivamente l'aveva rivolto verso di lei, contravvenendo così all'unica condizione dell'unica possibilità offertagli, ed Euridice ora svaniva come fumo nell'aria ed era inaccettabile e lui che, unico fra i mortali se l'era ripresa, ora, come un mortale qualsiasi, l'aveva persa del tutto e...Ora che il prof. L.M., brillante e stimato docente di lettere del Liceo cittadino, per la prima volta in una vita tranquilla, fatta dei modesti successi e degli ordinari traguardi raggiunti in un'esistenza senza deviazioni, tessuta di un medio prestigio e di soddisfazioni senza né grandi sorprese, né alcun clamore si era scontrato frontalmente con il lemma «disperazione» - semplicemente una parola come tante altre per lui - un termine che finora aveva avuto soltanto un significato da immaginare, una condizione che la sua vita ordinata gli aveva sempre precluso di subire, e che invece provava adesso in tutta la sua durezza, tanto da vederla persino scolpita sulla parete della cucina e fiammeggiare sul soffitto, tanto da percepirla aleggiante come un ectoplasma, e sentirla come gli echi farlocchi che contrappuntano le scene più crude dei b-movie montati per impaurire gli spettatori suggestionabili e semplici, allora, come nel flusso regolare delle onde del mare, la risacca ora cedeva nuovamente il posto all'angoscia che così poteva aggredire la spiaggia della sua anima, e aumentare il suo dolore, lasciandovi solchi vistosi di disperazione, ah, la disperazione... Sì, ora il prof. L.M. era per la prima volta davvero disperato e per la prima volta si sentì autorizzato a definire la propria condizione con la semplicità icastica di una locuzione inflazionata fra i suoi studenti. E sì che l'aveva sempre contrastata, ogni qualvolta volta ne avesse avuto l' occasione. Ma ora lo sapeva che non ne avrebbe mai più avuti di studenti, né di occasioni, e forse nemmeno di vita se solo avesse trovato il coraggio di andare fino in fondo e respingere la suggestione di una qualsiasi speranza ingiustificata - si dice dovrebbe essere sempre l'ultima a morire - che invece, forse, era già morta prima ancora che tutto avesse inizio. Ora altre lacrime si facevano strada sulle sue guance. Silenziosamente scavavano intorno a lui un perimetro di dolore che non avrebbe oltrepassato mai più. Con la testa fra le mani, allo stesso modo dei suoi studenti meno brillanti, le scandiva a mezza voce quelle tre parole piuttosto infauste da un mero punto di vista stilistico e certamente grossolane e troppo elementari da quello espressivo. Le diceva, come si farebbe constatando un fatto incontrovertibile, ma a chi si rivolgeva, mentre parlava? «Sono nella merda». Guardava la carcassa sul pavimento della cucina. Un corpo spento e deturpato racchiuso in una vestaglietta da quattro soldi. Nel corso della breve lotta lei aveva pure perso una ciabatta rivelando così che lo smalto delle unghie dei piedi era smangiato. Lo sguardo vitreo era ancora un' accusa, una nuova. Sussurrò: «Sono nella merda, davvero, adesso ...». Poi la urlò più volte quella parola che da quel momento avrebbe costituito l'essenza della sua vita dopo che si era impiegata per mesi, lungo un diabolico quanto paziente tirocinio, a impregnargliela: «Merda... Merda ... Merda ...».Eh sì, ora il prof. L.M. finalmente si era accasciato sulla sedia, e si guardava le mani, quelle mani che avevano sorpreso pure lui, in quanto a ferocia. Mani senza calli, né durezze. Mani fatte solo per tradurre in scrittura i pensieri. E accompagnarli, sottolineandoli, quando si fanno voce. Mani per scrivere voti e giudizi e relazioni. Il prof. L.M. incongruamente si ritrovò a pensare alla vicenda drammatica di un suo collega di un altro tempo e di un'altra terra, quel tal prof. Raat che ogni anno, per anni, aveva citato ai suoi studenti di terza. Quando li esortava a leggerla, quella storia, e li invitava a non considerare solo la contingenza «scolastica» che sì, ormai il tedesco non si fa più perché è l'inglese la lingua «necessaria» (ma necessaria per far cosa? Per tradurre i testi delle canzoni? Per nuotare nel Capitale e nel consumo planetario come un delfino particolarmente dotato? Per comprendere il lessico delle nuove tecnologie? Per i libretti d'istruzione dei vari aggeggi?) e sì, lui, il prof. L. M. effettivamente sarebbe solo di Letteratura italiana che avrebbe dovuto discettare, ma Heinrich Mann, eh, Heinrich Mann... In fondo aveva sempre pensato che la letteratura non si sarebbe mai dovuta dividere per geografie, ma fra letteratura e non letteratura. Pensava d'essere stato un bravo insegnante. Che anche quando, propriamente, non stava insegnando, «esortava» ad apprendere, lui, che l'avevano esortato per una vita; lui, che di amici non è aveva ormai più, anche se talvolta continuava ad accantonare i panni dell'austero professore e si rendeva amichevole quel tanto che bastasse, senza esagerazioni, con i suoi ragazzi. Eccola la risacca: in fondo qualcosa gli era pur riuscito di essere; qualcosa di importante per le loro vite. E questa certezza bastava per fornirgli un effimero barlume di innocenza. Non si sarebbe potuto non tenerne conto. Era sempre stato una persona perbene. Ma il suo passato senza una sola increspatura sarebbe stato considerato davvero un' attenuante? Eppure, a pensarci bene, quello stesso passato avrebbe potuto essere preso pure per un'aggravante: aveva tradito tutte le promesse, il professore, aveva imbrogliato tutti per una vita, mostrando un prodotto taroccato e solo alla fine aveva rivelato cosa fosse realmente. E noi, che ci eravamo fidati di te. Ecco cosa gli diranno. E sarà reietto. E così ricominciava l'aggressione delle onde diaboliche che violentemente riproponevano la consapevolezza del disastro, del peccato mortale, dell'offesa, dell'errore, lui che ancora una volta s'era giocato tutto, perdendolo, mentre sperava che tutto potesse andare diversamente, sperando.... Ma come poteva essere accaduto? Alla maniera del prof. Ratt e del suo tragico «chicchirichì», che almeno, però, gli consentiva di continuare a stare vicino alla feroce Lola Lola, mentre il suo di «chicchirichì» l'aveva invece allontanato da tutti quei pochi affetti che gli erano rimasti: Angela. I suoi genitori. La suocera superstite. In fondo Lola Lola, nel libro, non aveva fatto altro che seguire meccanicamente il proprio destino, come una macchinetta di seduzione che si dipanasse rispondendo ad un meccanismo che lei non poteva modificare, come fa lo scorpione che, nella favola, punge a morte la rana a metà traversata del fiume, procurando la morte ad entrambi, ed è la rana che ha sbagliato a fidarsi e non lo scorpione che non è stato altri che se stesso, ed è Ratt che ha sbagliato e s'è perso seguendo Lola Lola , proprio come lui, il prof. L.M , che il suo nuovo destino se l'era inventato. Il suo di «chicchirichì» era silenzioso, ma non per questo meno tragico: il suono terrificante e muto emesso da un uomo che si era condannato una mattina in un bar di corso Martiri della Libertà - ma allora è sempre stata quella la sua vera natura? avrebbero pensato tutti - nell'intervallo delle dieci.Perché aveva deciso di uscire dalla sua scuola per il caffè? Il distributore automatico in fondo al corridoio era sempre stato più che sufficiente, ma quel giorno, come ogni mercoledì, all'intervallo sarebbe seguita l'ora dei colloqui. Il primo quadrimestre era da poco terminato e non sarebbe venuto nessuno, perché i risultati erano stati pubblicati online già da più di una settimana. Non si aspettava, quindi, l'arrivo di mamme in cerca di rassicurazioni o il transitorio approdo, proprio il minimo indispensabile, di padri trafelati. E poi aveva anche voglia di mangiarsi una brioche. E poi sembrava già una mattina di primavera. E poi c'era quello strano malessere che lo affliggeva da qualche tempo. Per questo aveva trovato il coraggio di oltrepassare quel portone così austero, pur sapendo che il preside non gradiva quelle uscite che, se non poteva impedire, tentava in ogni modo di dissuadere. In fondo si trattava solo di poche decine di metri che avevano, però, il sapore di una libertà riguadagnata. Sarebbe stato solo con se stesso. Aveva quindi raggiunto il bar. Ordinato il caffè («Non corto che, badi bene signorina, non vuol dire lungo...» Proprio pedante, a volte). Aveva agguantato la brioche tanto desiderata. Si sentiva stranamente leggero quella mattina. E in prossimità del bancone, mentre attendeva il suo caffè, cominciò a mangiare badando a non sporcare il pavimento. Il quotidiano non era a portata di mano. Si guardò intorno a cercarlo. Alcune signore ingioiellate conversavano sedute attorno a un tavolino ormai sgombrato da tutti i piatti, i piattini, le tazze, i tovagliolini. Un paio di anziani silenziosi ne occupavano un altro di tavolino. Ah, eccolo il giornale! Un terzo tizio anziano se l'era accaparrato ed in tutta evidenza non l'avrebbe mollato se non dopo averlo letto da cima a fondo. Quando si è pensionati il tempo è la cosa che vale di meno perché se ne possiede in misura eccessiva e non si sa più cosa farsene: una condizione ancora piuttosto lontana per lui, aveva pensato L.M. che di tempo non ne aveva mai moltissimo. In un angolo, dietro un separè dal quale spuntavano delle teste, vide che c'erano alcune macchinette mangiasoldi. Quattro. Tutte occupate da giocatori. Non che le une o gli altri gli avessero mai sollecitato particolare interesse. Forse non se n'era mai nemmeno accorto del tutto che stessero lì. Stavolta però fu diverso, perché fra le teste che si scuotevano malinconicamente riconobbe quella ingrigita della sua domestica. Forse era proprio questo che, subliminalmente, aveva sollecitato il suo interesse. La signora Anna, che abitava all'altro capo della città, una volta alla settimana si recava a casa sua per sbrigare le faccende domestiche e garantire così ordine e pulizia. Dava una mano ad Angela e, infatti, era la mamma di lei che con una segreta partita di giro versava i soldi alla figlia, che li «girava» al marito che poi li consegnava alla domestica. Sì, era la proprio signora Anna quella che incurante di tutto stava giocando ad una slot machine: era la sua testa famigliare che aveva richiamato l'attenzione del professore. Lei, lui, nemmeno l'aveva visto, intenta com'era ad orientarsi nel suo esclusivo mondo di frutti colorati che casualmente si combinavano promettendo denaro. Sembrava li pretendesse, Anna, quei soldi, perché batteva sui tasti con la determinazione di un esattore, come se le fossero dovuti. Intanto, però, continuava ad introdurne di propri. Allora il professore oltrepassò il recinto riservato ai giocatori e si avvicinò alla donna, reggendo la tazzina in mano. «Buongiorno, Anna». Lei si girò e si mostrò sorpresa: c'era come un inspiegabile imbarazzo sul suo volto. Come se fosse stata còlta in fallo. Ma durò poco e si riprese immediatamente: «Professore! Che bella sorpresa... O meglio: coincidenza, più che una sorpresa... Sa, passavo di qua per delle commissioni, mi sono fermata per un caffè e, già che c'ero, una partitina... Ogni tanto la faccio, tanto per passare il tempo». Mentre parlava guardava per terra, e poi da un'altra parte per aria, L.M. assentì. Gli ricordava la faccia che il Bianchi di Quarta F assumeva ogni qual volta dovesse giustificare un'assenza in tutta evidenza strategica e, per di più, con motivazioni del tutto incredibili.Il professor L.M. osservava Anna con il consueto disinteresse , ma non riusciva a nascondere la sorpresa d'averla trovata intenta a buttare soldi in quel modo. Così se ne stava lì con la sua tazzina in mano come un coglione. Come un marziano. Come un professore fuori posto. Tuttavia, per non dare l'impressione di giudicarla, mentre beveva il caffè seguiva, come se davvero interessassero anche a lui le combinazioni che comparivano sullo schermo. Guardava il movimento del segnapunti elettronico che aggiornava le vincite virtuali. Incuriosito guardava anche la casella delle puntate cercando di capirci qualcosa. Appena Anna, che sembrava si fosse inspiegabilmente innervosita, realizzava una combinazione che le fornisse quel po' di energia sufficiente in più, alzava il valore della scommessa. «Può provare anche lei, professore. È divertente. Bisogna sapersi controllare, ma è divertente Non bisogna pensare di guadagnare i milioni, però qualcosina si può portare a casa. A me capita spesso». Intanto il professore si chiedeva con quale incoscienza la donna si giocasse dei soldi sudatissimi, in pochi secondi. La osservava come l'avrebbe potuto fare uno studioso e quando vide che aveva finalmente centrato una combinazione che le aveva fornito, in un colpo solo, duemila punti, cioè venti euro, immaginò se ne sarebbe andata via col bottino. Invece, senza alcuna esitazione, ma anzi, con una sorta di automatismo, la donna aveva alzato la puntata a duecento, cioè a due euro: circa un quarto d'ora di ferro da stiro in mano, o di ginocchioni sul pavimento della sala a tirare la cera. In dieci colpi, così, aveva perso tutto. L.M. si era chiesto, senza avere il tempo di trovarvi risposta, cosa si potesse provare in quel momento. Quasi avesse capito, la donna distolse lo sguardo dallo schermo:«Adesso me ne devo proprio andare, anche perché purtroppo ho finito le monete. Ma secondo me è "calda". Ci provi lei. Le dia una lezione, professore - e sorrise per il gioco di parole - dai, chè potrebbe divertirsi. Magari ci guadagna qualcosa». Poi sorrise e se ne andò piuttosto di fretta.L.M. la seguì verso l'uscita, depositò la tazzina sul bancone e allungò una banconota da cinque euro. Ignorò lo scontrino e ritirò il resto. «È calda ...» si trovò a pensare, «una ben strana espressione. Sembra si tratti di un corpo in attesa...». Due euro e cinquanta, il resto. Era già sulla porta per rientrare a scuola quando si disse, perché no? «È calda...». E ritornò alla zona slot machine: «Cosa si prova?». Inserì la moneta appena ricevuta. In fondo, si trattava soltanto di due euro. Fece come aveva visto fare da Anna e impostò la puntata sul cinquanta. Cinquanta centesimi. Solo per curiosità. 

Non avrebbe fatto più di quattro puntate. Al primo tentativo non uscì alcuna combinazione vincente. E neppure al secondo. Ostrega com'era rapida. Non gli era sembrata così vorace, prima. Nemmeno al terzo. Così anche per il quarto. «È calda un cazzo!». Ci rimase male. Percepì un'offesa. E un'ingiustizia. Si guardò attorno, come quando - una volta che era inciampato nel gradino traditore di Piazza Vittoria ed era riuscito a mala pena a stare in piedi recuperando l'equilibrio grazie ad un gran mulinare di braccia - per prima cosa aveva voluto accertarsi, con rapide occhiate, che nessuno stesse ridendo di lui. Si frugò in tasca e scoprì che di monetine da cinquanta ne aveva altre due. Tanto valeva disfarsene. Al bancone la ragazza gliele cambiò con una da un euro che lui prontamente inserì nella gettoniera. Schiacciò di nuovo lo start. Cinque banane si disegnarono sullo schermo in sequenza, su una sola colonna orizzontale. Vinceva più di cinque euro, in punti. Bene, si era già ripagato il caffè, per dire. Premette di nuovo il tasto lampeggiante. Più che vederla combinazione vincente, sentì un trillo improvviso e fastidioso, simile a quello della campanella della ricreazione. Lo schermo infatti era quasi interamente occupato da un riquadro nero con la scritta «You win 100»: nemmeno capì bene cosa stesse succedendo, ma la cascata di monete che precipitava glielò spiegò con efficacia. Gli sembrò un frastuono. Come un applauso. E provò il compiacimento di chi vince. Boh. Gli restava da fare ancora una giocata... Sentì nuovamente quel trillo. Ora gli sembrò meno fastidioso di prima. Anzi, ora gli fece proprio piacere, come un pezzo di Chopin al Grande. Sentì il tintinnio delle monete. Di nuovo apparve la scritta «You win 100», ma lo schermo diventò completamente nero, si inchiodò tutto quanto e vi comparve una scritta che invitava a rivolgersi all'operatore. Allora richiamò il barista. «Professore... lei ha centrato il jackpot, mi sa; la fortuna dei principianti», disse sorridendo. E aggiunse: «Mi deve dare un momento per ricaricare il serbatoio delle vincite, professore, a meno che gentilmente non lo voglia fare lei... tanto c'è il contatore che alla fine mi dice quanto ha messo dentro». Assentì. E mormorò fra sé e sé: «Ha centrato il jackpot!». Ma come parlavano questi? E lui chi era? Guglielmo Tell? Era talmente sorpreso da avere una specie di vertigine e da stimare di avere ancora tutto il tempo desiderato. Ma, pur senza un perché ben definito, si sentiva anche in colpa, perché gli sembrava di aver sottratto qualcosa ad Anna. Pensò che avrebbe dovuto ricordarsene al momento di darle la prossima busta con gli «auguri» di Natale. Poi, rivolto al barista: «Ma certo. Ci mancherebbe. Mi spieghi solo come fare». Il barista inserì una chiave nella parte laterale della slot. «Metta dentro le monete finché ci stanno. Poi in cambio le darò le banconote». E così il prof. L.M. si trovò ad inserire diligentemente una per una infinite monete da due e un euro. Si sentiva stupido. E povero, a manovrare tutta quella ferraglia. Si sentiva un mendicante di se stesso. Alla fine dell'operazione il barista si avvicinò e diede un'occhiata superficiale allo schermo. «Duecento euro, bravo! Eccoli». Ed estrasse dalla tasca posteriore dei jeans un rotolo di banconote dal quale strappò le quattro che il professore si ritrovò in mano con un certo imbarazzo: il Mercante ignorante e volgare che però può permettersi di pagare il Saggio meno abbiente di lui. Un quadro di Caravaggio con lo sfondo nero. Del resto la Storia era così e i sapienti e gli artisti erano sempre stati attaccati ai borsellini dei predatori che ce l'avevano fatta a diventare Re. L.M. si sentiva a disagio. Avrebbe potuto andarsene. Invece inserì un altro euro ritrovato per caso nella tasca posteriore, mentre vi cacciava i soldi appena ricevuti. Pigiò nuovamente il bottone. La macchina era impazzita. Continuava a vomitare denaro. Gli altri giocatori si fermarono e si avvicinarono. Intorno a lui si formò un capannello di curiosi: perdigiorno li avrebbe definiti in un altro momento. Ma ora costituivano il suo pubblico. Loro dimostravano di sapere cosa stesse succedendo. E tifavano per lui, contro la macchina. Aveva un pubblico e si sentiva contento, anche se l'impressione era fossero simili a quegli impotenti che, non riuscendoci in proprio, amano guardare le intimità altrui. Dovette fermarsi ancora un quarto d'ora in quel bar. Un quarto d'ora piuttosto redditizio. La ricaricò più volte. E quando uscì, in tasca, come fossero pietre, gli pesavano ottocento euro. Pensò che era circa un mezzo stipendio. Ancora non lo sapeva, ma gli era capitata la cosa peggiore che possa capitare ad un giocatore inesperto. Al primo tentativo aveva vinto tutto il possibile. Mentre percorreva il marciapiede affrettò il passo e inconsapevolmente mugolò quel pezzo che apre i Carmina Burana e che s'intitola «fortuna imperatrix mundi». Non si ricordò della citazione da Virgilio: «Fata viam invenient». Però accelerò ancora il passo. Un po' perché non voleva rientrare a scuola in ritardo, ma soprattutto perché aveva voglia di togliersi rapidamente da quella situazione. Sentiva come la necessità di distanziare il senso di inopportunità che gli pesava sulla coscienza, di lasciarselo alle spalle abbandonato sul marciapiede come un rifiuto. Raggiunse l'aula proprio mentre suonava la campanella. E ripensò alla slot perché il trillo era proprio uguale. E così fece , come avrebbero potuto fare i cagnetti di Pavlov, ad ogni cambio dell'ora annunciato da quella fastidiosa e celestiale campanella. E ogni volta ritornava con il pensiero a tutti quei soldi. Ma, soprattutto, a quella sensazione eroica. Si era sentito vittorioso e invincibile: oggetto dell'ammirazione di sconosciuti. Fu mentre andava a casa che decise di non raccontare nulla ad Angela e non soltanto perchè quell'extra aveva deciso che se lo sarebbe tenuto per sé. Forse, soprattutto, perché temeva che quella breve vacanza dalla vita rigorosa che ogni mattina percorreva, in fondo si era trattato di una sola mezz'oretta, avrebbe potuto illuminarlo di una luce diversa agli occhi della moglie. Una luce sconosciuta e cattiva, si disse. Angela, con tutto il suo buonsenso avrebbe avuto qualcosa da dire, ne era certo. Qualcosa di giusto, probabilmente, e acido. E molto critico. Eppure un pensiero improvviso lo colpì mentre attraversava la città per tornarsene a casa: sono i viottoli più sconosciuti e bui, che si aprono ai lati della via principale, quelli che possono essere estremamente piacevoli e rivelare panorami mozzafiato. Che possono sorprendere. E fuorviare. Incocciò in una tabaccheria dove non aveva mai messo piede, lui, metodico che andava quasi sempre nella stessa e si fermò per acquistare da fumare. Come farebbe un magliaro estrasse dalla tasca il pacchetto di banconote ripiegato e ne comprò due, di pacchetti di sigarette. E anche un accendino nuovo. Roba da poco, un Bic di plastica monouso. Ma era nuovo e lucido. Poteva permetterselo. Quei soldi erano soltanto suoi. E anzi, già che c'era, adesso avrebbe immediatamente recuperato anche quelli appena spesi: la macchinetta luminosa che in mezzo ad altre stava alla sinistra del bancone glieli avrebbe restituiti. E forse anche di più. Non giocò moltissimo, anche perché era atteso per pranzo: per non impiegarci troppo scommise al massimo delle puntate consentite. Tanto, se doveva essere giornata, avrebbe vinto né più, né meno. Perse cinquanta euro in una manciata di minuti. Non era un problema: poteva permetterselo. Li considerò un investimento. E si consolò pensando che è proprio perché non sempre si vince che prima o poi , quando arriva il momento, è così esaltante. Non evitò nemmeno di considerare che alla fine, tanto, si perde sempre, si perde tutto, perché tutte le partite umane finiscono sempre nell'unico, inspiegabile, inaccettabile modo e si finisce qualche metro sotto terra. Pensò al tedesco baffone che un paio di secoli prima aveva fissato per sempre, con quella semplice considerazione, la giustificazione per ogni eccentricità, per ogni dionisicità: l'unica certezza di ciascuno, aveva scritto, in fondo è costituita dalla propria fine. Ma proprio per questo, nell'intervallo che scorre fra il primo pianto e l'ultimo respiro può succedere proprio di tutto. Quindi, perché non essere allegri? Ed L.M. invero uscì dal negozio sorridendo. Infatti, rispetto al mattino, aveva comunque ben settecento cinquanta euro in più: non era poi una cattiva consolazione. E si chiese perché, proprio a lui, nell'intervallo della sua esistenza fin lì dipanata, non fosse mai capitato nulla di eclatante o sorprendente, ma anzi, fosse stato il protagonista di una vita indistinta che già dalla culla era stata prevista e progettata da altri. A lui non era rimasto che adeguarvisi e andare avanti come gli veniva indicato, senza discussioni, senza colpi di testa, né eccentricità. In un qualche modo si sentì defraudato di qualcosa. Ma forse, pensò, aveva ancora tempo per liberarsi del grigiume che gli inquinava l'anima.***Ad analizzarla con il bilancino dei torti e delle ragioni, dei vizi e delle virtù, del tempo della fatica e di quello regalato all'ozio, dell'impegno e del riposo, infatti, bisognava riconoscere che la vita di L.M. fin lì era stata davvero irreprensibile. Educato fin dalla più tenera età a diffidare dalle passioni - chè possono contenere il rischio di trasformarsi in ossessioni e travolgere chi se ne sia reso ostaggio - gli era bastato seguire piuttosto passivamente la mappa esistenziale elaborata dai suoi genitori. È così che a forza di sacrifici famigliari aveva completato gli studi e, dopo la lunga e necessaria trafila, aveva conquistato un posto di lavoro che avrebbe restituito allo Stato solo al momento della pensione, un posto dal quale nessuno avrebbe potuto cacciarlo e che, se non forniva ricchezze, certamente assicurava un buon tenore di vita, migliore di quello dei suoi rurali genitori. Aveva una casa ormai quasi del tutto di proprietà, un'auto di media cilindrata e una più piccola per la moglie. Un fazzoletto di terra che insisteva a chiamare giardino. Due biciclette. Le ferie pagate. La tredicesima. Aveva tutti quei beni di consumo spesso non necessari, ma indispensabili, ormai. Un computer. Un notebook. Svariati e sempre più provvisori telefonini. Aveva dieci giorni al mare di Romagna, vicino a Cesenatico perché costava un po' di meno, agli inizi di luglio. Aveva una solida cultura tradizionale che, come sosteneva sempre suo padre, quarta elementare e poi via nei campi a lavorare, sarebbe stata una compagna di viaggio affidabile e duratura. Pur avendo sempre riconosciuto la validità di quella convinzione si era chiesto spesso come facesse suo padre a saperlo, chè l'unica cultura che davvero aveva conosciuto lui era quella con la «o» al posto della «u» e si riferiva al granoturco d'estate e all'erba «Spagna» per le bestie in primavera. Eppure, la sua saggezza di contadino non aveva sbagliato. O forse sì, invece... Quando L.M. aveva cominciato a uscire con qualche ragazza le indicazioni dei genitori, le loro espressioni del volto ( le «facce», le chiamava lui, soprattutto quella di sua madre, così brava a manifestare dolore muto e scoramento sospirato se la candidata non rispondeva appieno al modello di nuora che s'era costruita), l'insieme dei loro suggerimenti che apparivano così disinteressati, erano stati gli elementi che avevano deciso per lui se una storia dovesse davvero continuare o no. E così, un po' alla volta, si era fatta strada la candidata che in breve era stata approvata e che ora condivideva la sua vita. Come succede talvolta, in realtà non aveva poi dovuto fare molta strada per trovarla: dopo aver girovagato fra i sentimenti e le mutande delle non molte compagne di scuola che negli anni si erano succedute, aveva riconosciuto che sì, Angela, la figlia di un tizio che abitava non distante da loro ed era amico dei suoi, aveva tutti i requisiti per essere una brava moglie, di quelle che danno conforto, affetto, sicurezza e fedeltà. Angela, in fondo, le mutande se l'era tolte solo una o due volte prima del gran giorno, solo dopo grandissime insistenze, ed anche questa poteva essere la conferma della sua serietà. Era una donna senza grilli per la testa, insomma. Se fossero arrivati figli, sarebbe stata anche un'ottima madre. Per amarla, lui l'amava, ne era certo. Però il dubbio che la loro storia avesse avuto una regia esterna che non era mai stata soltanto sua era sorto dopo solo alcuni mesi dalle nozze e non l'aveva mai abbandonato del tutto. Ecco. Il professor L.M. pur non avendo apparenti ragioni d'insoddisfazione soffriva, senza nemmeno rendersene conto del tutto. Era così giunto, quasi senza accorgersi del rapido trascorrere del tempo, in quell'età in cui il dubbio se avesse fatto le cose giuste, talvolta, lo svegliava di notte, mentre di giorno invece, lo proiettava in una specie di doloroso sogno ad occhi aperti. Quest'ultimo, però, era più facile da scacciare: c'erano i compiti da correggere. Lezioni da svolgere. Riunioni da preparare. Incombenze reali o inventate. La notte invece era tutto più complicato e spesso attendeva, ad occhi aperti e fingendo un respiro regolare per non svegliare Angela e inciampare in domande a cui dover rispondere, un'alba che lo liberasse da quella zavorra dolorosa. Ogni volta, tuttavia, gli restava attaccato addosso un vago senso di insoddisfazione. Ogni volta un po' più grande. Ogni volta un po' più persistente. Ecco. Si rendeva conto che gli avevano insegnato a non essere mai del tutto soddisfatto di sé, ad aspirare sempre a qualcosa d'altro, di più importante. Ad ottenere un risultato solo per assaltare il successivo. C'era sempre riuscito, in un modo o nell'altro. Ma un punto d'approdo arriva sempre, e quando hai attraccato, il mare ce l'hai tutto alle spalle. E ora che insegnava da anni si chiedeva ... E ora che era una nave in disarmo si diceva... E ora che la sua storia personale era dietro di lui ne valutava il senso... Anche quando guardava la sua rassicurante moglie, che non gli aveva mai dato un problema, né negato il rispetto e la comprensione - d'altro canto lui sapeva d'essere un libro aperto, per gli altri - si chiedeva come sarebbe stata la sua vita coniugale se solo ... Sognò che nel bar era calato il silenzio. Sognò che quelli seduti si erano alzati, mossi da un atteggiamento di rispetto, mentre quelli che stavano già in piedi davanti al bancone gli si erano velocemente avvicinati. Sognò che la macchina eruttava denaro in continuazione, ma nel sogno mentre sentiva tutte quelle monete cadere rumorosamente sul metallo, decideva che le avrebbe lasciate lì, sdegnosamente, perché ne aveva già vinte pure troppe, ormai era ricco e aveva capito che nemmeno quella era la cosa più importante. Sognò che osservare lo schermo pieno di colori, in realtà, lo metteva nella condizione ideale per riflettere. Riusciva ad elaborare pensieri per lui nuovi. La macchina come la sfera di una chiromante. Prospettive diverse. Altri punti di vista. La macchina era come una televisione che gli permetteva di osservare storie e pensieri alternativi. Una moto L.M. non l'aveva mai potuta possedere, ma nel sogno provò anche l'ebbrezza di una corsa in moto di notte sotto un viale alberato, come anni prima l'aveva immaginata mille volte, e con i capelli al vento, lui, L.M. che ora di capelli ne aveva un gran pochi. Sognò che sarebbe stato per sempre un vincitore. Intanto il rumore delle monete in caduta libera che invadevano persino il pavimento diventava sempre più assordante, ma era solo la sveglia che suonava, mentre il vicino di macchina che aveva interrotto il proprio gioco per complimentarsi con lui dandogli delle amichevoli pacche sulle spalle, era soltanto Angela, che con dolcezza lo svegliava. E lo esortava a sbrigarsi. Lo esortava, anche lei. Ancora.***Quella mattina mentre si avvicinava al portone della scuola pensò che comunque all'uscita avrebbe trovato la maniera di farsi una partita da qualche parte. L'avrebbe rilassato. Sentiva di averne bisogno. Decise che avrebbe cambiato zona, però, e non solo perché gli sembrava improbabile che la stessa macchina lo premiasse due volte consecutivamente, ma anche perché ci teneva a non farsi vedere da persone che potessero conoscerlo: colleghi, genitori o, peggio, studenti. Una cosa infatti gli era ben chiara: anche se giocare era del tutto legale, poteva rivelare un carattere debole oltre a una ingiustificata disponibilità a buttare via del tempo che per lui avrebbe dovuto essere prezioso. Per tutta la vita si era sentito sotto osservazione. Persino il matrimonio con Angela, ormai, spesso gli sembrava il sandwich di due vetrini sotto il microscopio di una moltitudine di sconosciuti. Ci pensò su e decise che sarebbe andato in una zona periferica dove non lo conosceva nessuno; sarebbe sceso ad una delle ultime fermate del metrò nella direzione opposta a quella per lui abituale, magari dalle parti di Sant'Eufemia, il vecchio quartiere popolare. Ci era andato a cena con i suoi , in quei paraggi, quando s'era laureato. Pensò che forse anche per la sua domestica era stato così: l'aveva scovata in Centro che per Anna era la zona periferica, visto che lei in periferia ci abitava. Ad ogni cambio dell'ora, la campanella lo convinceva nella sua decisione: avrebbe giocato, avrebbe pensato, non avrebbe dovuto rispondere alle domande di nessuno. Non avrebbe dovuto nemmeno porsi domande. E forse sarebbero scesi ancora soldi. Avrebbe vinto di nuovo. E se anche avesse perso, avrebbe perso soldi che non erano suoi. Il bar in cui entrò sembrava fatto apposta per giocare. Un numero esiguo di tavolini. Il bancone piuttosto ridotto. E lungo le pareti lerce una decina di macchinette intorno alle quali c'era una frenetica attività. Tutte quelle persone gli ricordavano l'operosità delle vespe sempre in movimento, ma sempre in stretta prossimità al nido. I giocatori si davano un gran daffare e anche se le macchine erano tutte occupate c'era sempre qualcuno che si muoveva per cambiare le banconote, per uscire a fumare, per prendersi un bicchiere di qualcosa. Oppure sembrava un formicaio, solo che questi diligenti individui invece di accumulare si dedicavano a disperdersi. Ascoltava commenti e battute. Il rumore di bicchieri in libertà. Notò che una macchina stranamente era libera e si avvicinò. Sulla fessura dove si inseriscono le monete c'era un bicchiere di plastica capovolto che spostò delicatamente. Mentre cercava un posto dove depositarlo si sentì richiamato: «Che cazzo fai?», gli aveva gridato, per sovrastare il suono dei video che un plasma trasmetteva dalla parete, l'uomo da dietro al bancone. Inizialmente non capì bene quale fosse il problema, ma il giocatore più vicino a lui, senza togliere gli occhi dallo schermo distrattamente lo informò: «È occupata...». «Come, è occupata?». «Il tizio ha detto che andava a fare bancomat. Ieri sera. Ma oggi tornerà di sicuro. E se posso darti un consiglio e meglio che non gli venga nemmeno il sospetto che tu possa averci giocato mentre era via. È geloso. Ed è attaccabrighe».L.M avrebbe atteso il turno. Poi uscì e telefonò a sua moglie. Le disse che s'era proprio scordato di informarla che quel coglione del preside aveva fissato un consiglio di classe nelle prime ore del pomeriggio. Non valeva la pena di tornare a casa. Avrebbe mangiato un panino al volo. In attesa della riunione avrebbe preparato la verifica per il giorno dopo. Finita la riunione sarebbe tornato a casa. Riattaccò. Non riuscì a ricordare, se mai era successo, quando fosse stata l'ultima volta in cui aveva mentito a sua moglie. Un panino, poi, mentre attendeva, lo mangiò davvero. Ebbe così modo di osservare il tizio che, tornato con un po' di contante, aveva ripreso possesso della macchina. Vide come bruciò, in un lasso di tempo piuttosto breve, una cospicua quantità di denaro. Vide come se ne andò sconsolato, e rapidamente, come se non volesse farsi notare. Come possono filarsela solo gli sconfitti e i pavidi. E pensò che quella era la sua occasione. Il caso gli aveva fatto addocchiare quella macchina. E lo sconosciuto ci aveva lasciato dentro molto denaro. Che ora aspettava qualcuno. Lui. Nuovamente. Come con Anna. Era un segno. Timidamente prese possesso della slot e iniziò a giocare.***Mentre tornava a casa si interrogava su come funzionassero quelle macchinette. Si chiedeva come fosse stato possibile perderci tutti quei soldi. All'inizio aveva immaginato fosse questione di poco tempo e aveva giocato in modo estremamente rilassato. Dopo aver cambiato la terza o quarta banconota da cinquanta aveva cominciato a provare una lieve inquietudine. Ma la logica scacciava la sua momentanea apprensione: lui stesso aveva ormai aggiunto parecchi soldi a quelli lasciati da altri. E la macchina avrebbe pur dovuto pagare, prima o poi. «Insisti», si diceva. Il vicino gli aveva detto: «Sono bastarde. Quando non vogliono pagare, c'è niente da fare». Era arrivato il momento di rientrare a casa. I soldi non li aveva finiti, quello no. Ma certamente ora li aveva più che dimezzati. Per tutto il tragitto non pensò ad altro. Pensò che forse se avesse avuto il coraggio di giocare ancora qualche minuto e non avesse dato ascolto a quell' imbecille. Che probabilmente era anche uno che beveva... Pensò che del resto non si può pretendere di vincere sempre. Pensò che in fondo non era successo niente di grave. Pensò alla persona che sarebbe entrata dopo di lui. E che magari con poco si sarebbe portato via un bel bottino. Gli venne da ammazzarla, se l'avesse avuta lì davanti. E magari quella persona era proprio il suo vicino di gioco. Quello che beveva. Quello che gli aveva insinuato il dubbio. Per prendersi i suoi soldi. Poi pensò che s'era comportato da pirla. S'era fatto prendere dal gioco. Ora, nella memoria affiorava un'immagine che lo spaventava: ad un certo punto non aveva più saputo chi fosse, da dove venisse e dove andasse. In quel preciso istante il Mondo aveva cessato di esistere e tutto si era ridotto ad essere una sfida all'ultimo sangue, un combattimento fra lui e una macchina sul ring di un bar lurido. Una lotta dalla quale era uscito battuto. Almeno per il momento... In metropolitana pensò che la sua vita era insoddisfacente e pensò anche che aveva tutto il diritto di inserirvi una variabile che lo divertisse. Che fosse solo sua. Una specie di riparo segreto. Un palliativo. Un anestetico. Non faceva nulla di male. Lo stipendio lo portava a casa lui. Ne avrebbe dirottato solo una minima parte. Come andare allo stadio. Come avere un hobby inoffensivo. Fu in quel preciso momento che Angela iniziò a morire. Fu su quel vagone del metrò, mentre osservava i binari che si snodavano davanti a sè che il prof. L.M. imboccò la sua strada obbligata e senza ritorno.***Non riusciva più a controllarsi. E siccome amava ripiegare sulle sue conoscenze letterarie, che riadattava alla vita di tutti i giorni, per cercare di definire ciò che viveva, gli venne naturale pensare al romanzo di Stevenson. Sentiva crescere dentro di sé un ingombrante Mister Hyde che era in grado di ridicolizzare puntualmente le decisioni del dottor Jeckill. E Hyde gli suggeriva di aver più fiducia e costanza, e metodo, eh, il metodo!, che l'emozione di quel mattino vittorioso ormai quasi dimenticata, sarebbe presto ritornata: si trattava solo di avere pazienza. Al contrario, ma del tutto inutilmente, Jeckill gli suggeriva incessantemente di mollare. Soltanto quando si trovava in classe, al prof. L.M. riusciva di allontanare la molestia di quei pensieri insistenti e che ormai aveva la consapevolezza fossero pensieri malati. In quei momenti riusciva persino a decidere che nel pomeriggio non sarebbe nemmeno uscito di casa e che un giorno di stop non sarebbe poi stato un dramma e che anzi avrebbe potuto essere la traccia del percorso per allontanarsi dalla morsa che lo attanagliava a quegli schermi psichedelici e ladri. Ma subito dopo pranzo sentiva agitarsi il solito vecchio richiamo. Per una diabolica coincidenza di fattori, quando talvolta gli sembrava che quel giorno sarebbe riuscito a resistere, sorgeva qualche esigenza o famigliare o legata al suo lavoro e si trovava costretto dai fatti ad uscire in gran fretta. Allora, dopo aver fatto il dovuto, si recava, quasi fosse un premio, da qualche parte ad incontrare il suo brivido. La sua Lola Lola elettronica. Come ogni ubriacone, si proponeva di berne solo un bicchiere, mentre iniziava la partita, chè tanto avrebbe potuto fermarsi quando l'avesse desiderato. E come ogni ubriacone tornava a casa alterato e solo quando aveva finito tutti i soldi. Viveva così in una sorta di clandestinità domestica nella quale cercava di giustificare a sua moglie gli improvvisi cambiamenti che da qualche mese si erano verificati. Stava in casa molto meno di prima, e capitò pure che talvolta uscisse da solo dopo la cena. Era una tale novità che Angela, in uno dei vaghi momenti d'ironia di cui fosse stata mai capace, gli chiese se quelli della Pubblica istruzione l'avessero per caso nominato Consulente Speciale del Ministro, visto la recente mole d'impegni che lo distoglievano quotidianamente da lei.

Oppure, quando nelle occasioni in cui serviva una moneta per il parcheggio o per il carrello del supermercato, moneta che lui non aveva mai, Angela, ammiccando, progettava di controllare le tasche di tutti i suoi calzoni, perché era evidente che per non averne proprio mai nemmeno una doveva perderle per la strada. E poi c'era la recente novità dei cambi d'umore improvvisi: lui solitamente così pacato e gentile, sempre più spesso alzava la voce. L.M. cominciò ad aver paura e, nel tentativo di elaborare una possibile giustificazione da tirar fuori quando il suo peccato fosse stato ben chiaro per tutti e per Angela in particolare, pensò a quei tempi in cui, forse per impedire il diffondersi dell'abitudine di sfidare la fortuna a colpi di denaro, i pochi casinò erano collocati in alcuni luoghi, in genere note località turistiche. Dalla città termale dal nome fittizio di Roulettenburg - e che forse era la Wiesbaden dove cominciò a rovinarsi Fëdor Dostoevskij - ah, come si sentiva còlto il prof. L.M. quando approdava ad una letteratura calzante per i suoi casi, fosse pure, come in questo caso, piuttosto scontata - fino ai quattro o cinque casinò sparsi per l'Italia erano tutti egualmente piuttosto irraggiungibili per le persone comuni anche per l'aura di ricchezza e dissoluzione che li contrassegnava. Per questa ragione, a quei tempi, per una persona qualsiasi sarebbe stato piuttosto difficile, se non impossibile, finire in un guaio come il suo. Ma ora erano i casinò ad aver raggiunto le persone più comuni e, soltanto nella sua città, se ne trovavano decine di migliaia, dislocate nei posti più frequentati, di occasioni dove buttare denaro sperando di prenderne. Prima, «prima!» - quindi c'era un momento preciso in cui era iniziato il suo degrado realizzò mentre silenziosamente dentro di sé, il marito, il bambino, il Maestro che era stato, lacrimavano - il prof. L.M. nemmeno s'era mai accorto della diffusione, dilagante come un olio lento e viscoso , ma impossibile da fermare, dei terminali per giocare. Ora che con occhiate rapide meccanicamente li cercava, scovandone sempre di nuovi, aveva invece visto quanti fossero. E cominciavano a fargli paura, come fiere da cui fosse impossibile fuggire. E si giustificava: si può resistere una volta, ma è difficile resistervi quando ogni giorno ci si avventura nel giardino delle tentazioni. E notava anche, con un certo sprezzante disagio, di che genere fossero i giocatori che incontrava nei vari luoghi e di come costituissero un campionario di umanità tenuto insieme da una supposta avidità e da un'autentica disperazione, fatto di vecchiette e casalinghe, di immigrati, di ragazzi che in alcuni locali ci davano dentro nonostante si vedesse non erano nemmeno maggiorenni, di adulti con facce che rappresentavano professioni incerte ed esistenze equivoche, di gente comune che mentre immaginava di prendersi una pausa dallo stress se lo procurava in abbondanza. C'era di tutto, variegato come l'Umanità. Certo, L.M. sapeva benissimo di non essere come loro. Ciò che non riusciva a spiegarsi era il perché, se davvero era meglio di loro per cultura, per ruolo sociale, per percorso esistenziale, stesse lì a condividerne le abitudini, a sentirne le imprecazioni. A vedere che incollati alla macchina, alcuni fra i più esasperati davano delle grandi volgarissime pacche o altri, che invece ai video ci parlavano con tono suadente, come si fa con una conquista effimera, nella speranza di convincerla a «lasciarsi andare» («La macchina è calda, professore!» e tutto era iniziato da quella promessa riservatagli da una attempata Sirena dalle mani rovinate e dall'aria stanca). E come tutti gli ubriaconi che alla mattina si alzano con la nausea e giurano di non bere mai più, ma che poi calmano i loro tremori solo dopo quel bicchiere che non sarà uno, ma il primo, così si comportava L.M., che dopo aver sbattuto una decina di euro nella slot, si costruiva la conferma che in fondo erano solo delle macchine da intrattenimento. Che lo divertivano e gli fornivano adrenalina. E allora cominciava a cambiare diligentemente le banconote da cinquanta. Intanto si era reso conto che i risparmi sul conto corrente erano sempre di meno. E che, esaurito anzi tempo lo stipendio, si ritrovava sempre più impaziente e preoccupato ad attendere il prossimo. Il giorno in cui uccise sua moglie tutto era iniziato secondo i migliori auspici. C'era un'aria di sorpresa che trasportava l'aroma del caffè caldo che lei, fatto piuttosto insolito, gli aveva preparato. Di solito capitava nel giorno del suo compleanno, durante le vacanze di Natale, nell'anniversario del matrimonio. Con gli occhi ancora semichiusi L.M. si interrogò a lungo: che ricorrenza c'era da festeggiare, oggi? Che giorno particolare poteva mai essere? Si ricordò soltanto che per quel giorno lui s'era preso un appuntamento con il direttore della banca : per andare in vacanza, quest'anno, avrebbe avuto bisogno di un prestito. Un piccolo prestito. Di quelli che ad un impiegato pubblico non si possono certo negare. Da restituire in piccole rate. Anche pagando interessi elevati. E proprio oggi sarebbe andato alla sua banca a parlarne. Ma Angela, questo, non poteva saperlo. E soprattutto, non avrebbe dovuto saperlo mai.***Quando si sedette a tavola per la cena si accorse che l'atmosfera allegra del risveglio era svanita come fanno i sogni. Angela non parlava, limitandosi a servire nel piatto del marito. L'aria che L.M. si ritrovava a respirare era densa e inquinata da qualcosa, ma che cosa? Tentò di intavolare una conversazione. Raccontò sorridendo di un modesto incidente occorso in mattinata nel corso della ricreazione. Azzardò persino il ritratto ironico della collega di chimica che con lui aveva assistito alla scena e si era spaventata. E di come quello di Educazione Fisica fosse intervenuto in maniera inspiegabilmente saggia e coerentemente decisa per dirimere la questione e disperdere il gruppetto di studenti che, nel cortile, si era minacciosamente avvicinato a Bianchi di quarta F per suonargliele. All'origine sembrava ci fosse una storia di debiti non restituiti. Ma Angela non rideva e rispondeva a monosillabi. E non mangiava. Sembrava lontana e lo guardava quasi a cercarvi qualcosa, in lui, qualcosa che sapeva avrebbe dovuto esserci e invece non trovava più da tempo. Allora L.M. interruppe il suo piccolo spettacolo, scacciò la faccia compiaciuta del direttore di banca che alla sua richiesta del mattino aveva risposto con un largo sorriso, seguito dalle parole: «Non c'è alcun problema, professore», alle quali però erano seguite quelle ben più preoccupanti: «Naturalmente, essendo il conto cointestato a sua moglie sarà necessario che anche la signora passi in Agenzia a firmare la richiesta da inoltrare alla direzione». Se n'era completamente dimenticato. L'aveva aperto troppi anni prima. E in tutti quegli anni Angela mai si era interessata in maniera diretta della gestione economica della famiglia. Era lui il capo. Era lui che teneva i conti. Era lui l'amministratore di quella ben strana forma di società. Ma la paura e il dolore gli causarono una smorfia, come se si fosse morsicato la lingua, ma la dissolse subito, complimentandosi per la cena. Avrebbe trovato una soluzione. Dentro una sala giochi in San Faustino aveva sentito di uno che prestava soldi senza grandi garanzie; l'indomani sarebbe andato a cercarlo. Stava per iniziare a ringraziarla per la sorpresa del mattino quando lei lo interruppe: «Non abbiamo più un euro da parte. E adesso tu mi dirai che fine hanno fatto». L.M. abbozzò un tentativo di negare, tentativo che si fondava soprattutto sulla convinzione che lei non potesse conoscere con precisione le loro reali condizioni economiche. Fu ancora Angela a interrompere quella patetica e incosciente arrampicata: «Credevo ti stessi ammazzando di lavoro. Sei sempre fuori e sempre solo, per quei quattro soldi che ti danno... Allora avevo pensato di dartela io una soddisfazione. Un premio. Un segno che almeno io avevo capito chi sei e quanto vali. E oggi pomeriggio sono andata in banca per fare un bonifico. Volevo prenotare una breve vacanza al mare per il ponte del Primo maggio. Un week end. Credevo te la meritassi. Prima mi hanno chiesto se fossi passata a firmare. Poi mi hanno ficcato in mano la ricevuta dell'operazione inevasa con su scritto "fondi insufficienti". Avrei voluto sotterrarmi. Ho chiesto cos'era che avrei dovuto firmare. Avrei voluto sotterrarti. Ho chiesto una lista dei movimenti: c'è una enormità di prelievi bancomat. Tutti i giorni qualcosa. Una goccia che si fa mare. Dopo aver prosciugato il fiume. Cosa sei diventato? Un puttaniere o un drogato? Cosa cazzo sei diventato?». E gli gettò in faccia un paio di stampate di computer spiegazzate ed umide. Ma il prof. L.M., apprezzato docente delle scuole superiori che le parole le conosceva bene, tanto da averne fatto lo strumento di lavoro di una vita, e le conosceva quasi tutte, e le usava meglio di chiunque altro, improvvisamente si accorse che di parole per quella circostanza non ne aveva più. Che quelle che aveva non sarebbero bastate. E che forse, anche tutte quelle che aveva usato per sé lo avevano sempre soltanto imbrogliato, avviluppandolo in una ragnatela dalla quale non sapeva proprio come sarebbe potuto uscire. E subito dopo, allo stesso modo in cui gli era già successo nello squallido locale di Santa Eufemia, non sapeva più dove si trovasse, chi fosse e cosa ci facesse in quella cucina disadorna, in quella vita squallida. Anche stavolta il Mondo, per una manciata di minuti aveva cessato di esistere e si era ridotto ad essere una sfida all'ultimo sangue, un combattimento dentro un ring che giorno dopo giorno si era ristretto sempre di più e ora gli impediva qualsiasi movimento, contro una donna che dopo avergli abusato la vita gli sputava in faccia domande inaccettabili, dalle risposte tristemente note solo a lui e, perciò, del tutto altrettanto inaccettabili da chiunque altro. Ma era un incontro dal quale non sarebbe uscito sconfitto, perché lui sarebbe stato per sempre un vincitore. Era solo questione di tempo. E di fiducia. La fiducia che Angela ora gli negava. Mentre le stringeva le dita intorno al collo tentava di ignorare le sue urla, insensibile alle sue unghie e ai suoi calci sempre più deboli. E le urlò in faccia, guardandola negli occhi che lentamente abbandonavano la luce: «La vita non è un cerchio, cazzo! La vita non è un cerchio come credevi tu». Gridava che non era come gli avevano insegnato, che alla fine si sarebbe arrivati esattamente lì da dove si era partiti. «La vita non è un cerchio, cazzo!», perché la vita è un filo che si dipana, che non rassicura, che non si sa fin dove arriva e conduce ad una meta ignota, fatta di rischio e libertà. La vita, soprattutto, è un imbroglio sopravvalutato».***I Carabinieri fermarono il prof. L.M. qualche ora dopo, mentre in evidente stato confusionale, era intento a distruggere a martellate gli schermi di alcune slot machine nella sala giochi al primo piano del Centro Commerciale «Freccia Rossa», in centro, vicino alla stazione ferroviaria. Poi però, incuriositi dal mutismo dell'uomo e dall'irreperibilità della moglie che non rispondeva nemmeno al cellulare, andarono a casa loro per informarla personalmente di quanto era accaduto. E fu così che sul pavimento della cucina, in mezzo a cocci e avanzi di cena, con il volto ricoperto da una tovaglia sporca venne scoperto il cadavere della signora Angela M., casalinga di anni 48 e, come dissero al Tg del giorno dopo, vittima dell'ennesimo femminicidio. Un termine che il prof. L.M. aveva sempre reputato orrendo e inascoltabile. Davvero inaccettabile. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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