INTERVISTA

Beppe Loda

Quanti possono dire di aver creato un genere? Senza scomodare James Brown e Bob Marley, a chi si può chiedere in Italia? Per informazioni, passare da Brescia. In provincia, nella Bassa, a Manerbio. Qui è nato Beppe Loda, padre riconosciuto della musica Afro: uno che non ha avuto bisogno di darsi nomi d’arte pirotecnici per accendere un fuoco che in oltre quarant’anni non s’è mai spento. Percussioni, elettronica; ritmi tribali, armonie spaziali. Il cocktail che ha mandato su di giri migliaia di ragazzi che oggi hanno sessant’anni e lo stesso sorriso di allora, felici di ritrovarsi in pista con giovani che potrebbero essere loro nipoti e ne assorbono l’entusiasmo, la gioia di vivere. La lezione dei Ragazzi del Columbus, docufilm su Prime Video tratto dal romanzo di Andrea Castagnini di cui il disc jockey - e percussionista, compositore, produttore - bresciano è uno dei protagonisti indiscussi. Il Columbus era uno spiazzo di asfalto a Riccione adibito a parcheggio che incoronava la fine di viale Ceccarini dal lato del mare, delimitato da due bar famosi, il Sombrero e appunto il Columbus. «Il docufilm fotografa un mondo che sento mio - ricorda Loda -. Situazioni vissute e condivise per parecchi anni. Dal 1982 cominciarono a chiamare la musica che andava nei nostri locali Afro Movement, o Afro Style, prendendo il nome da nastri miei».

Perché Afro?
Oggi il nome rappresenta anche forme non consone alla mia idea iniziale. Io per «afro» intendevo un semplice contenitore in cui collocare tutte le musiche che riuscivo a recuperare in giro per l’Europa, visto che in Italia si trovava poco, musiche che avessero radici sonore africane. Potevo mescolare blues e tribale, fare Afro jazz o Afro funky. Tutto quello che aveva a che fare con la musica africana: Afro!

Il segreto?
Ho studiato percussioni per 3 anni. Sono riuscito a individuare ritmi diversi fra loro ascoltando tanta, tanta musica. Ho definito questo miscuglio in una parola sola, viaggiando parecchio.

La città della svolta?
Parigi. Camminando per le Pigalle, a caccia di dischi, mi scappa l’occhio e vedo un negozio di pettinature stile «afro». Incuriosito, cerco sul vocabolario e capisco che è la parola giusta. La cosa divertente è che poi sui miei dischi di percussioni il termine era indicato ovunque. Afro jazz, Afro Brazil...

Cittadino del mondo. Nato a?
Manerbio, Bassa bresciana, il 20 febbraio 1957.

Il primo disco?
Non c’era musica a casa. Segavo le ossa a mia madre perché mi comprasse dei dischi. Ascoltavo «Hit parade», Lelio Luttazzi mi aspettava all’uscita da scuola. Fu così che scoprii «Venus» degli Shocking Blue. La mia fortuna era che i miei genitori avevano un negozio di frutta a Manerbio in centro, dove c’era un negozio di elettrodomestici che vendeva i dischi, come usava nei paesi. Mi feci comprare «Venus».

Ed eccoci qui. La prima volta in consolle, invece?
Al Kinky Club di Manerbio, nel 1976. Con i miei 45 giri mettevo rock, funky, rhythm and blues.

Menù vario fin dall’inizio. Così appassionato da far esclamare a sua moglie che «ha passato metà della sua vita a cercare dischi e l’altra metà a suonarli».
Sono sempre stato un ricercatore accanito. Prendevo il treno e andavo a Piacenza da Ronchini, uno dei primi importatori italiani di dischi. Non potevo spendere più di tanto, ma volevo differenziarmi. Amavo il funky, che era ovunque. Quando è nato Pinto in città sono diventato subito suo cliente. E comunque in Francia, in Germania.

Così è nato il sound del Typhoon, qui stanno le radici di un percorso che ha superato i confini.
Posso dire di avere avuto successo nel mondo. Per uscire dall’Italia ho lavorato tanto, ho acquisito conoscenze e sperimentato sempre. A fine anni ’70 mi sono avvicinato alla musica africana ma anche a space disco, dance, elettronica e new wave. Ho cominciato a lavorare al Typhoon ancora prima che aprisse nel dicembre dell’80, quando è passato da sala cinematografica a club. Curavo la direzione artistica e durante la realizzazione del locale avevo partecipato anche alle scelte per la costruzione dell’impianto audio. Il banco regìa-dj era stato realizzato su misura per me. Sono stato resident da prima che aprisse fino alla chiusura nel 1987, se si esclude una parentesi nell’84/85 prima al Cosmic, poi al Chicago. Al Typhoon sono nate tendenze musicali che hanno influenzato il panorama alternativo in Italia e non solo. Al Cosmic mettevano KC and the Sunshine Band? Io mi ero già spostato sull’elettronica. E mi seguivano in tanti. 

Afro» ma anche musica brasiliana, rare groove, blaxploitation, obscure jazz, fusion. Ha fondato il gruppo MC1 facendo italo-synth, il progetto «Italowerk» producendo italo-disco-synth. Orizzonti ampi: più il gusto della sfida o la curiosità per i suoni «altri»?
Amo la musica, come s'è capito. Quindi parto dal Kinky a Manerbio e arrivo al Moma di New York, dove sono stato invitato 2 volte. Nel 2006 la prima volta: mi avevano scoperto grazie al web. Prediligo l'elettronica kraut dei Tangerine Dream, ma anche sonorità industriali inglesi e spagnole con influenze tedesche...

A Brescia ha collaborato, fra gli altri, con Marco Obertini.
Al Vinile 45, sì. Persona veramente in gamba, Marco. Con la mentalità che ha, le capacità artistiche e quelle organizzative, fosse nato all'estero avrebbe potuto imporsi anche lì.

L'Afro non muore mai: lo dimostra anche Rete Radio Azzurra, emittente monteclarense fondata da Fulvio Di Raddo. Dalla vostra collaborazione domani scaturirà pure una grande festa di Halloween al Florida, dove sarà in consolle con un altro mostro sacro dell'Afro-funky come Mozart.
E ci divertiremo. Ad ogni modo per me rimane prima di tutto un discorso culturale, come gli Afroraduni che furono un'idea mia. Io sono sempre stato aperto. Anche se faccio un programma in radio: prima elettronica, poi new wave, quindi Afro e Brazil, ultima ora libera. Mettendo di tutto.

Come un contenitore aperto. Tanti i suoi colleghi famosi: quello che sente più vicino?
Mozart, sì. Per lui provo rispetto e ammirazione.

Il pezzo che non dovrebbe mancare mai in un suo djset?
Tutti e nessuno: ho sempre comprato solo dischi che mi piacevano.

Quello che invece ha suonato di più?
Elettronica berlinese. Molti pezzi non sono ancora riuscito a suonarli: conto di farlo.

Cosa pensa dei Nu Genea, il duo napoletano-berlinese che con la sua formula funk-fusion-electro-disco oggi è arrivato alle soglie del grande pubblico?
Auguro lunga carriera, fanno le loro cose. Ma io ho collezionato 8 mila dischi funky e 2000 fusion: sono abituato ai giganti, non possono colpirmi i Nu Genea. Apprezzo Gerardo Frisina, produttore devoto ai classici. Dalla bossanova al chillout.

Se cominciasse a fare il dj adesso che basta un clic per trovare ciò che un tempo richiedeva viaggi costosi?
Dopo una fase in cui facevo una fatica maledetta per scovare i vinili, sono passato a una seconda più tecnologica e il digitale non mi ha colto di sorpresa. Già nell'83 realizzavo brani come «Basic» con gli MC1. Ci dicevano che eravamo troppo avanguardia. Francesco Boscolo, con me in quell'avventura, era un musicista da conservatorio. Oggi il problema è il vuoto culturale. Nessuno pubblica un pezzo solo se lo emoziona.

Mauro Pagani tempo fa ha dichiarato a Bresciaoggi che il Medioevo è sempre più lungo del Rinascimento e nella musica ce ne stiamo accorgendo adesso.
Perfettamente d'accordo con lui.

L'antidoto?
Girare il mondo, ancora. Ho suonato in tutti i continenti, in Svizzera, Inghilterra, Spagna e Austria come in Africa, in Giappone come in Australia, Canada, America. Il 18 e il 19 novembre sarò in California, a Los Angeles e a San Diego. Non vedo l'ora..

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