INTERVISTA

Max Tozzi

La coerenza, pur cambiando. La musica, come magìa del mutamento. Non c’è da meravigliarsi se per contare i generi sperimentati da Max Tozzi in oltre vent’anni di carriera non bastano le dita di una mano (e nemmeno due): la sua cifra - artistica, stilistica - è multiforme. Un quadro variopinto che va dai Cinemavolta (7 dischi dati alle stampe, dall’electropop al funk senza passare dal via) a Stereonoon, ultimo progetto in ordine di tempo giunto da poco al traguardo del secondo album. Il groove che si fa più notturno e jazzy, l’ennesima prova fuori dal coro per un cantautore che ha collaborato con Omar Pedrini e Claudio Bisio, Max Casacci e Xantoné Blacq, Ski Oakenfull e Bobby Soul, Nikki e Bengi. Che ha composto colonne sonore per lungometraggi e cortometraggi, inni per eventi sportivi, brani per libraries internazionali. Che ha scritto un romanzo («Smetti di essere felice», accompagnato da un disco di canzoni ispirate al libro) e con le arti «gioca», per mutuare il verbo caro a inglesi e francesi, praticamente da quando è nato. «Avevo 2-3 anni e c’era un pianoforte a casa di una vecchia prozia paterna, delle Marche. Il primo contatto è stato quello. Poi - ricorda il monteclarense Max - mia mamma, maestra elementare, suonava la chitarra. Attorno ai 10-12 anni ho preteso una tastiera: ce l’aveva un amico, mi piaceva. Mi è arrivata una Bontempi, come nella miglior tradizione italiana. E ho iniziato a tirar giù melodie dalla radio e dalla tv. Ce n’erano tante, negli anni ’80».

Un buon periodo, gli ’80. Soprattutto rivisto con gli occhi di oggi?
Sì. C’era di tutto. In classifica andavano i Tears for Fears, musica che ha ancora adesso un fascino incredibile perché sembra provenire da un’altra era: senti «Such a shame» dei Talk Talk e potrebbe essere un pezzo del 2024, o del 2500. C’era sete di novità, la voglia di dire qualcosa di diverso, di sperimentare. Peter Gabriel che toglieva i piatti della batteria. Il tentativo di cercare un linguaggio alternativo, la corsa a un nuovo suono.

Dopo la Bontempi?
Alla fine delle scuole medie i miei genitori mi misero davanti a un bivio: «Se come voto prendi ottimo puoi scegliere fra motorino e sintetizzatore». Ho scelto, per loro gioia e sollievo, di farmi comprare un Korg. Ho iniziato a fare musica elettronica tutta suonata dal vivo con un amico, Riccardo Sanna, rivisto da poco al Monamì. Da lì arrivano i suoni dei primi lavori dei Cinemavolta.

Band imprescindibile della scena alternativa bresciana. Come vi siete formati?
Io e Stefano Fornasari ci siamo conosciuti nei primi anni ’90, grazie a un amico in comune. Lui aveva un gruppo prog rock, i Paint Box. Io studiavo jazz alla Civica di Milano, ero molto inquadrato. Ho iniziato come tastierista, alla chitarra sono arrivato solo più tardi. Già le prime date furono divertenti. Ricordo un concerto mai iniziato perché spostando un faretto fastidioso Stefano prese la scossa e dovemmo affidarci al pronto soccorso.

È allora che Stefano Fornasari ha perso capelli?
Possiamo dire che li aveva persi già al Donne Motori, levandosi la parrucca dopo averla indossata fino all’ultimo pezzo.

Ironia e impegno: il suo percorso poliedrico si è sviluppato col tempo e dopo tastiere e chitarra ha imparato il basso. Al talento si deve accompagnare sempre una voglia inestinguibile?
Ripenso all’autobiografia di Keith Jarrett, intitolata «Il mio desiderio feroce». Devi avere qualcosa che ti morde dentro, che ti spinge ad imparare. C’è sempre la possibilità di sperimentare nuovi linguaggi, uno sguardo diverso anche su ciò che già conosci: basta cambiare prospettiva.

E i Cinemavolta l’hanno cambiata spesso: tante proposte diverse, sempre di alta qualità. Se foste nati a Londra o a Dublino, avreste avuto un contesto favorevole?
Vale sia l’aspetto geografico sia quello temporale. Siamo nati in un periodo di mezzo, nei primi anni Zero, verso la fine della discografia classica, senza social network che, se ci fossimo formati 10 anni dopo, avremmo senz’altro sfruttato: i nostri viaggi in furgone erano sempre fonte di divertimento, probabilmente saremmo finiti a fare qualche serie tv. Siamo stati pionieri quando in occasione del secondo disco la Nokia ci ha dato un telefono per contenuti adatti al Royal Artist Club, una specie di Facebook ante litteram, ai tempi di Myspace. Abbiamo creato materiale da mettere sulla piattaforma. Quanto alla geografia, in Francia senza promozione abbiamo ottenuto molto successo. Ci siamo evoluti di continuo ma questo in Italia è sempre stato considerato un difetto: quando i Bluvertigo hanno pubblicato «Zero», dove c’era di tutto, i discografici si sono fatti il segno della croce... Tante volte ci è stato detto «Siete bravi, ma non si capisce chi siete». Eppure la mutevolezza è propria di Elvis Costello come dei Radiohead. La storia della musica è fatta da gente che cambia, come Miles Davis.  

Il pezzo di cui va più fiero?
«Tutti a casa» mi emoziona sempre. È dedicato a una persona che si è tolta la vita. Suo padre un giorno di pioggia è passato a trovarmi e abbiamo bevuto un caffè. Mi ha ringraziato, è stato qualcosa di genuino, che rimane dentro di me. Il brano è su «Guerra fredda», ep acustico privo di batteria.

Ispiraste i Subsonica: «Weekend», il disco d'esordio, era stato prodotto da Max Casacci per Casasonica e la sua versione unplugged sul vostro sito raccoglieva consensi.
Casacci era molto orgoglioso. Era un periodo fertile, poco dopo è uscito il libro che mi ha reso scrittore.

Vuole scriverne ancora?
Sì, ma la scrittura richiede tempo e non è un'attività multitasking. Ho avuto la fortuna di lavorare con scrittori bravi in quel periodo e mi è servito a capire il vero segreto: come in tutte le arti, togliere-togliere-togliere.

All'attività di musicista ha affiancato quella d'insegnante.
Ho cominciato insegnando filosofia al liceo, ma non faceva per me. Sono stato docente alla Scuola di musica del Garda e a Milano; ho preso una pausa perché avevo tante date, ma è arrivata la pandemia.

Durante il lockdown è nato il progetto Stereonoon. Da «Yeah. And stuff» a «Places we can go hide», con uno spin-off spaziale chiamato Lakomb fra un disco e l'altro. Nu jazz, neo soul e un collettivo fondato assieme ad Anna Polinari. Soddisfatto?
Sì, ora l'identità è più precisa rispetto al primo disco scritto a distanza: il secondo è più centrato, maturo. Col tempo stiamo imparando a conoscerci meglio e sul palco il risultato è coinvolgente. Nel comporre mi porto dietro la ricchezza e il limite dei Cinemavolta: non riesco a fare le cose guardando in una sola direzione, ho bisogno di avere più codici da portare nello stesso messaggio.

Reunion dei Cinemavolta in vista?
Mai dire mai.

È sempre stato uno sportivo, baskettaro assiduo per hobby.
Il basket non è un hobby, è una religione! Lo sport mi vede sempre molto coinvolto. Le partite a volte sono racconti, altri romanzi. Mi piace l'aspetto narrativo, in particolare del baseball per quello che racconta fuori dal campo.

Max Tozzi è uno storyteller.
Sì. Per questo avrei voluto avere più a che fare con il cinema, la sintesi di tutto. Ma ho fatto colonne sonore.

Se potesse formare la sua band ideale di tutti i tempi?
Difficile. Risolvo prendendo Prince: sapeva fare tutto e scriveva canzoni meravigliose.

Gli ha anche dedicato una canzone.
Eh sì. Il mio rammarico è non averlo visto dal vivo. Per fortuna resiste la sua musica. Dischi che rimarranno per sempre. .

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