INTERVISTA DELLA DOMENICA

Michele Bertoli (The Great Inferno)

Fiamme alte. Non ci sono alternative. La musica questo è (dev’essere): passione che brucia, una scelta di vita che divampa e non concede dubbi, non congela istanti. Avanti tutta e stop, senza esitare. A novant’anni come a 20. O a quasi 40. Michele Bertoli è fra i punti di riferimento del drumming bresciano in ambito rock. Spirito creativo senza fronzoli. sempre lontano dai riflettori, sempre vicino a progetti forti, fragorosi e fedeli alla linea di un’ispirazione avvolgente. Dai Marydolls a The Great Inferno, passando per Ovlov e Seddy Mellory, sempre in direzione ostinata e contraria. Un solo dio: «La canzone».

Venticinque anni di attività, più o meno, per un culto preciso.
Sì, in questi 25 anni ho sempre voluto una cosa: prestarmi alla canzone, suonare in funzione sua e non mia.

Modello Ringo Starr e affini. Le canzoni di solito sentitamente ringraziano.
Così dev’essere. Modello Charlie Watts, direi, pure.

Cos’è il rock?
Un fuoco che non si spegne. È il punk ma può essere anche Fabri Fibra: è un’attitudine, innanzitutto.

Da quando lei è rock a questo mondo?
Sono nato a Brescia il 25 aprile 1983.

E ha visto la luce?
I primi barlumi a casa di mio nonno, Mario Zampedri: maestro di musica, professore e sassofonista, aveva studiato al Venturi che poi è diventato il Marenzio, il Conservatorio di Brescia. A casa dei miei nonni c’era sempre un sottofondo costruttivo, prevalentemente jazz: da Charlie Parker a John Coltrane, da Duke Ellington a Bill Evans, senza dimenticare Stan Getz.

Musica impegnativa per un bambino.
Ero un bimbo, sì. Ma ho cominciato presto ad apprendere e sto approfondendo tuttora. Mio nonno mi ha raccontato un sacco di storie, di aneddoti. Mi ha descritto tutti i sacrifici fatti per suonare. Oltre a mio nonno è stata importante la figura di mio zio Massimiliano, che mi ha introdotto con gli ascolti in macchina a Metallica e Ac/Dc, Bob Marley e Pink Floyd.

La folgorazione?
I Litfiba.

Fa sorridere pensare che il suo compagno di band Paolo Fappani si chiama Blodio perché non voleva mai suonare El Diablo...
È l’unica cosa che non abbiamo in comune. Ricordo il vhs di «Sogno ribelle», trent’anni fa. E la cassettina di «Terremoto» che comprai in spiaggia con 5 mila lire. La conservo in un album con i biglietti di tutti i concerti.

Collezionista come i veri fan.
Io appartengo a questa cosa.

Con la sua compagna di vita Silvia ha due figli, Pietro e Nora. Li farete, o lascerete suonare?
Di sicuro non li freneremo. Nora prende il nome dal personaggio di un testo rock and roll, Pietro da Peter Hayes dei Black Rebel Motorcycle Club. Da bambini bisogna essere liberi di esprimersi. Io cominciai con le bacchette dei tendaggi a sfasciare divani. Mio nonno pensò bene di prendermi una batteria, così non avrei più fatto danni. Ma a 11 ero già capace di suonare tutto «Terremoto», grazie ai divani. Mi ero portato avanti.

Prima band?
A 12 anni: ebbi la fortuna di trovare ragazzi che avevano bisogno di un batterista. Mi ritrovai a suonare con gente di 10 anni più grande. Ci chiamavamo Anthem, facevamo cover anni ’70.

Da chi ha imparato?
Sono grato a Pippo Apostoli per quello che mi ha insegnato. Cinque anni da autodidatta, uno col maestro e tutto il resto, fino ad oggi, ad ascoltare ed esplorare. Il riferimento era Dave Grohl, ma amavo anche «La fabbrica di plastica» di Grignani. Capisci col tempo che gli ascolti che paiono distanti in realtà sono collegati, fanno parte di un insieme: quello che sei.

I Marydolls, progetto fondamentale per la storia del grunge bresciano, sono nati dal suo incontro con Paolo Morandi.
Ci siamo conosciuti nel ’98, in un contesto di paese, come due pesci fuor d'acqua. Lui con la maglietta dei Nirvana , io con i jeans strappati, scoprendo di essere cugini di secondo grado. Il giorno dopo abbiamo iniziato a suonare nel mio garage. A 16 anni già facevamo concerti, accompagnati dai genitori. A 20 il primo demo...

...e poi 3 dischi, aprendo anche all’Heineken Jammin’ Festival per Police e Alanis Morrissette.
Con Lorenzo Toninelli a completare il trio e Paolo Damiano come produttore storico. Abbiamo vinto il Vitaminic, fatto centinaia di concerti e nel 2008 il Lattepiù era imballato di gente che cantava i nostri pezzi. Mica male per una band bresciana. Noi ci siamo legati anche come amici: facevamo enduro, abbiamo scalato anche l’Adamello, sempre insieme. Non ci siamo mai sciolti.

I Marydolls si sono fermati 5 anni fa. Lei ha proseguito.
È la mia religione a guidarmi. Mi sentirei perso senza musica. Ho preso parte a vari progetti, mi sono divertito un sacco a suonare con gli Ovlov, quindi mi sono imbarcato in un indimenticabile tour in Ucraina con i Seddy Mellory , con Paul e Blodio che avevo conosciuto già con i Marydolls. Uniti dalla stessa passione, dall’amore per il rock and roll e dal tifo per il Brescia, dalla volontà di esplorare sonorità differenti. In questo progetto ho messo radici.

L’evoluzione dei Seddy Mellory, The Great Inferno, era cominciata con Paul, mancato improvvisamente 3 anni fa.
Un vuoto incolmabile. Con lui avevamo già deciso la copertina del primo disco. L’abbiamo concluso con altri amici musicisti e dopo il concerto in sua memoria in Latteria Molloy eravamo carichi di motivazioni, ma il Covid per due anni ha bloccato tutto. Smontandoci.

Siete ripartiti.
Sì, con l’idea di non ripeterci. «Stone, blood and whispers» e «Four legs in a good suit», registrati a LeKlubHaus, come gli altri pezzi del nostro gruppo nascono da un’urgenza emotiva di Blodio, vero motore creativo che per la prima volta nella sua carriera ha iniziato a cantare. Anche la sua voce è uno strumento con cui stiamo sperimentando. Siamo ripartiti da zero e prepariamo un album per la fine del ’22 o l’inizio del ’23.

Come sarà il prossimo disco?
Lento, ipnotico, scuro. Ma al tempo stesso pop.•.

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