INTERVISTA

Michele Mirabella

«Non vedo l’ora, lo sa che sul lago ho bellissimi ricordi? Il Garda è incredibile. Tornare, una sensazione stupenda». Il Teatro Alberti lo aspetta. La data segnata col circoletto rosso su un’agenda sempre piena è venerdì 11 novembre: Michele Mirabella, uomo di cultura e spettacolo a tutto tondo come usava un tempo e oggi sempre meno, sarà a Desenzano in qualità di testimonial della stagione teatrale. «Verrò accompagnato», sorride: difatti sarà con Dante e il canto di Ulisse della Divina Commedia. «Io sarò il marinaio», ha chiarito in un video-messaggio alla presentazione del cartellone alla stampa. Un programma ambizioso, che vuole fare di Desenzano «la capitale del Garda».

A proposito di lago: ma questi ricordi?
Pensi, risalgono a tanto tempo fa. Detto che Brescia è una città bella e vivibile; Desenzano, poi, non parliamone nemmeno: ha presente quant’è incantevole il lago di Garda? Qui ci sono luoghi meravigliosi. E qui, dicevo, ho trascorso mesi indimenticabili della mia vita per ragioni sentimentali. Una mia fidanzata aveva una villa sul lago, niente male devo dire... Posti straordinari. Gli antichi che sceglievano di sistemarsi qui avevano decisamente ragione.

Di suoi passaggi bresciani si trova traccia facilmente nei nostri archivi: con Vox Aurae in San Barnaba ha reso omaggio alla musica di Rossini; in zona-lago, a Ponte San Marco, ha presentato un «Concerto d’inverno».
Sono state esperienze che mi hanno lasciato qualcosa. Questo vado cercando da sempre: esperienze significative, che valgano la pena.

Figlio di un ufficiale dell’esercito, cresciuto fra Bitonto, Bari e Roma per seguire il lavoro del padre, la maturità classica, la laurea in lettere, quindi la ribalta: oltre mezzo secolo di carriera, riconoscimenti e premi, sul palco e dietro le quinte, davanti alle telecamere e in cattedra. Come vuol essere definito, professore?
Professore no, grazie. Preferisco maestro, come si dice in teatro.

Nei fatti è autore, attore, regista, accademico, conduttore, direttore artistico: 6 personaggi in cerca d’autore.
Citando Luigi Pirandello che ha marchiato i miei inizi, certo: mi sono laureato con lode con una tesi sul teatro. Nasco uomo di teatro, regista innanzitutto. E ogni regista è un po’ anche un autore. Ad ogni modo sul mio biglietto da visita posso scrivere nient’altro che il nome e il cognome. Non è che i lavori che faccio siano eterogenei, sento una vocazione culturale che mi porta a interpretare la realtà. Anche la mia conduzione di «Elisir» su Rai 3 è un’applicazione della tecnica della recitazione alla dottrina scientifica, ai suoi rigori a volte spigolosi. La storia della medicina è affascinante e va raccontata. Io lo faccio da teatrante: il mio mestiere è uno solo, questo. Qualsiasi cosa faccia - anche i miei vent’anni e passa di insegnamento universitario - risente di quello che ho appreso sul palcoscenico.

A Desenzano narrerà «Ma misi me per l’alto mare aperto» accompagnato dal Duo Mercadante, con Rocco Debernardis al clarinetto e Leo Binetti al pianoforte.
Sono molto contento. Proporrò una lectura Dantis che non vuole essere esauriente né esaustiva: è una semplice riflessione approfondita, appassionata, che voglio condividere col pubblico. Voglio cercare insieme a chi mi ascolterà la strada dell’esegesi del testo, senza la quale pensare di interpretarlo è pura follia. Non si può portare in scena un testo, di Dante, Steinbeck o Proust che sia, se non lo si è capito fino in fondo. Oggi in aeroplano stavo riassaporando le bellissime parole proprio di Proust sul piacere di leggere. L’appuntamento desenzanese tutto vuol essere tranne una lezione: è una proposta che rivolgo al pubblico, un’esemplificazione, attraverso il mio poco ma appassionato talento, di come si possa interpretare una lettura come questa sul piano grammaticale, logico, sintattico e poi testuale, filosofico, ermeneutico. «Ma misi me», dice Dante, non «Ma mi misi» che come suono semmai ricorderebbe una cameriera di «Via col vento». Usa un iperbato clamoroso, Dante, per evitare un suono disgustoso nell’accostamento delle parole. Si pensi a Leopardi: in «Silvia rimembri ancora» sceglie un verbo con la «r» perché quello gli serve, e ne sceglie uno che implica l’idea di ricostruzione più di «ricordare». 

Teatro, radio, cinema, televisione: ha raggiunto la popolarità e l'ha mantenuta grazie a uno stile elegante, cultura profonda ma leggerezza nel porla. Lei come Renzo Arbore: questione di esperienza, caratteriale, generazionale?
Io e Renzo abbiamo lavorato assieme molto a lungo. Non siamo dei mestieranti, condividiamo un talento umano. Ho sempre cercato di esprimere nell'arte, la nobile arte dell'ironia, ciò che sono, la contemplazione della vita con saggezza. Anche se devo parlare a «Elisir», che non è certo Shakespeare, mi viene spontaneo fare così: cercare di spiegare sempre con ironia, che è gentile laddove il sarcasmo invece è crudele. E voglio confidarle una cosa, non senza una certa supponenza: bisogna studiare! Punto. Questa è la verità. Persone come me e Renzo hanno studiato tantissimo.

Come lo conobbe?
Nel 1973 avevo vinto una borsa di studio in Rai e frequentavo un corso in via Asiago. Volevo incontrare lui e Gianni Boncompagni e ci riuscii. Non ne esistono più così. Intorno a quella Rai ruotavano intellettuali come Umberto Eco, Carlo Emilio Gadda, Italo Calvino.

Fra i tanti incontri fondamentali, ce n'è uno che ha segnato più di altri il suo percorso?
Ho avuto compagni di lavoro straordinari come Franco Enriquez, uno dei miei maestri di regìa teatrale. S'immagini la mia commozione, quando mi sono visto assegnare il premio a lui intitolato due anni fa. Ho cominciato ancora bambino da comparsa per Eduardo De Filippo, un gigante. Ho frequentato moltissimo da spettatore Giorgio Strehler. Ho avuto l'onore di lavorare in due film con Alberto Sordi, attore eccezionale. Con Lele Luzzati, scenografo straordinario. E voglio citare Valeria Moriconi, un'interprete incredibilmente brava: era protagonista del «Macbeth» diretto da Enriquez, io ero l'aiuto regista.

Ha recitato con Massimo Troisi: non pensa che venga ricordato troppo poco?
Massimo era un artista insigne. Un amico prim'ancora che un collega. Dire che abbiamo costruito insieme un pezzettino di cinema è vero. Sono contento di aver assecondato la sua intuizione umoristica fuori dal comune. Eppoi c'è poco da fare, era spiritoso anche nella vita. Ne rimpiango l'arte e l'espressività. Io e Renzo Arbore andavamo a vederlo agli esordi con la Smorfia. La mia agente mi telefonò e disse: «C'è una persona straordinaria che ti vuole conoscere». «Ma io lo conosco già!», risposi. Massimo venne a casa mia dopo un trasloco, indicò i libri accatastati e chiese: «Tutti li hai letti?». «Molti sì - replicai - per tanti dovrò aspettare, qualcuno mai».

E lui?
«Quelli so' assai, tu sei solo». Un genio. «Ricomincio da tre», il film cui partecipai, incassò parecchio. Ci ricavai qualche mese di affitto. In tutta la mia vita ho lavorato in una ventina di film. Sono riuscito pure a pagarmi il mutuo.

L'anno prossimo compirà ottant'anni: cosa vorrebbe regalarsi?
Lo so già, ho già prenotato il regalo: dirigerò un'opera di Mozart a Catania. «Le nozze di Figaro», un sogno che diventa realtà. Il 5 marzo debutteremo al teatro Bellini. È già un progetto, spero sia un successo..

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