INTERVISTA

Uliano Lucas

Professione fotoreporter: i suoi scatti spogliano dalle maschere, tolgono la polvere, scavano in profondità. Con il dono dell'empatia, con la leggerezza - sempre - di uno sguardo puro. «Ho deciso di fare il fotografo dopo aver letto il libro di Uliano Lucas sulla Milano degli anni '70», diceva su queste colonne due settimane fa Eros Mauroner. Da collega a collega con devozione e stima. E ha tanti fan Lucas, ottant'anni da compiere il 25 maggio, lo spirito giovane di chi sorride nella certezza che il futuro non sia già scritto. Lui che avrebbe di che sedersi: per decenni ha collezionato reportage su giornali e riviste documentando una realtà in ebollizione fra contestazioni giovanili e proteste di piazza, immigrazione e industrializzazione, senza dimenticare luoghi di detenzione e ospedali psichiatrici. La società prima, dopo e anche durante il Sessantotto. Lucas è sopravvissuto al fronte, ha affrontato lotte per la democrazia, è passato dal Portogallo del dittatore Salazar alle guerre di liberazione in Eritrea, Guinea-Bissau, Angola e Giordania. Tutto questo partendo da Milano (dove è nato), in tutto questo trovando il tempo di fare qualcosa d'importante anche per Brescia: sei anni fa ha contribuito a fondare il Macof, il Centro della fotografia italiana sorto fra le suggestioni barocche di palazzo Martinengo Colleoni nel cuore di Brescia, insieme al direttore artistico Renato Corsini, a un altro protagonista di quest'arte quale Gianni Berengo Gardin e alle storiche della fotografia Tatiana Agliani e Giovanna Bertelli.«Ora me ne sto ad Asti: ho fatto il nido qui un anno e mezzo fa nell'infuriare della pandemia - racconta Lucas -. Ma il contatto con Brescia rimane. È un legame di storie, incontri, persone. Un rapporto consolidato dalla nascita del Macof».

«Un luogo di riflessione e ricerca»: com'è nata l'idea di un Centro della fotografia italiana a Brescia?
Lo spunto è arrivato su iniziativa personale di Renato Corsini, che ha chiamato me e Gianni Berengo Gardin. Il Comune ci ha sostenuto, le istituzioni ci hanno dato garanzie e allora abbiamo potuto formare un comitato scientifico intelligente: non è scontato ed è fondamentale per quello che avevamo in mente, una realtà unica per la comunicazione visiva non solo in Lombardia ma per l'Italia intera. Un'idea nuova a queste latitudini ma che in Germania è capillare da tempo, con musei nazionali praticamente in ogni regione.

Il Macof è un'ode alla fotografia italiana.
E ci voleva dopo tanta, troppa esterofilia! Dobbiamo essere un punto di riferimento promuovendo la cultura dell'immagine con grandi mostre anche di scatti dimenticati, recuperando archivi e lanciando dibattiti. Brescia non deve dimenticarsi di avere, oltre a una prestigiosa storia economica, una tradizione riconosciuta anche in campo culturale.

Come sta la fotografia in Italia?
È da sempre trattata come la cenerentola delle arti. Con il Macof abbiamo voluto costruire un ponte levatoio, portando tanta gente a frequentare la città nel nome di un concetto di cultura visiva: non esiste una fotografia di serie A e un'altra di B o C; still life, moda, reportage, hanno tutte uguale dignità. Il linguaggio fotografico va approfondito nel suo complesso. Per un fotoreporter è importante la formazione giovanile anche politica. Lo è stato in Italia, in particolare, perché qui la mia è stata una generazione di autodidatti.

Lei ha fotografato di tutto.
E ho fatto di tutto, scegliendo di essere free lance. Volevo essere libero, lontano dalla retorica dei condizionamenti. Ho vissuto un periodo di grande creatività che partiva dal cinema italiano. Ho fotografato l'evoluzione della società che da agricola diventava industriale, gli autoritarismi militari e manicomiali. Ho fatto inchieste in Medio Oriente e nei paesi ex comunisti, sono stato a Sarajevo e mi sono avvicinato al terzomondismo raccontando l'Africa. Ho avuto l'onore di lavorare al fianco di formidabili giornalisti.

Di cosa è più fiero?
In Mozambico abbiamo aperto una scuola di giornalismo, per esempio. E con Tatiana Agliani ho scritto un libro sulla storia della fotografia.

Chi è stato il suo modello di riferimento?
Mai avuto maestri. Per fortuna. Ho conosciuto, semmai, tanta gente che mi ha consigliato di leggere certi libri, studiare certi quadri, guardare certi film. La mia curiosità da reporter mi ha fatto spaziare volentieri dalla fotografia americana a quella sovietica, ho amato l'avanguardia di Rodcenko come i francesi fra surrealismo e intimismo. Devo tanto al cinema: i film mi hanno educato, ipnotizzandomi.

Il film della sua vita?
Ce n'è uno che riassume tutto: «La passione di Giovanna d'Arco». Lì c'è la grande poesia, fotogramma dopo fotogramma. Anche nelle opere di Kurosawa ritrovo una visione poetica.

Il fotografo più bravo?
Apprezzo il lavoro di tanti colleghi. La capacità e le intuizioni di Caio Mario Garrubba e Ugo Mulas. La fotografia di cronaca anni '60, il talento di Gianfranco Moroldo, la mentalità dell'agenzia Magnum creata dai fotografi per i fotografi.

Com'è cambiata la fotografia?
La rivoluzione digitale e la globalizzazione legata a Internet hanno stravolto un modello artigianale. Inevitabile adeguarsi a situazioni nuove con uno sguardo diverso. Il lavoro del fotoreporter come lo intendevamo è finito. Un tempo i rotocalchi erano uno sguardo sul mondo per la gente, intorno all'immagine fioriva la letteratura; adesso le fotografie sono illustrazione, devono raccontare l'esistenza. Da giovane io potevo imparare il mestiere o in un laboratorio artigianale, o nelle agenzie fotografiche, o nelle scuole serali ottica. Oggi il fotografo dev'essere un vero e proprio comunicatore visivo, quindi bisogna uscire da un'università con un dottorato visivo. Non c'è più modo di essere autodidatti, con l'evolversi delle tecnologie. La comunicazione passa dalla Rete, bisogna ragionare in termini digitali. Il passato non tornerà più. Ma è una fase di passaggio e l'editoria in Italia non ha ancora compreso la nuova comunicazione. Il primo che capisce cosa fare vince tutto.

Esempi da seguire?
In Germania gli editori sono collegati alle università. Noi ci arriveremo dopo, perché in ambito fotografico scontiamo un ritardo che parte da lontano.

Brescia capitale della cultura nel 2023: cosa farà il Macof?
La fotografia dev'essere uno strumento per l'avvenire. A Brescia dobbiamo ragionare su come si sono evoluti i mezzi della comunicazione visiva. Giornali, radio, televisioni, web non si escludono; l'ibrido fra parola scritta, video e radiofonia era previsto in tanti libri scritti in Francia, Inghilterra e America che qui non venivano tradotti. Al tempo stesso abbiamo subìto l'egemonia culturale americana invece di esportare i nostri grandi come Franco Pinna, la genialità di neorealismo e postneorealismo. La via giusta è promuovere la nostra cultura partendo dalla tradizione per aprirci al nuovo, all'inesplorato.

Ottant'anni a maggio: come li festeggerà?
Rai5 mi ha dedicato un documentario straordinario: è già stato quello il mio regalo. Graditissimo.

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