INTERVISTA

Vittorio Sgarbi

Critico, certo. Saggista, sicuro. Ma non soltanto. Instancabile divulgatore, inarrestabile affabulatore. Grazie alla forza della passione che si è fatta studio e conoscenza, e in virtù della sapienza maturata col tempo nel dosare le parti, Vittorio Sgarbi commisura la preparazione dotta con la curiosità di un pubblico sempre vasto. Ora si sta dedicando ad un altro grande della pittura mondiale nella storia. Impresa improba, condotta in porto. Il disegno come idea per Raffaello, l'arte come progetto (e ragione) di vita per il professore: questi gli orizzonti della fatica d'imminente pubblicazione. Perché «nulla ci avvicina di più a Dio della creazione artistica, che ci fa vivere oltre la vita». Millenni di superbe intuizioni dell'umanità stanno lì ad attestarlo, incontrovertibili .A differenza di altri grandi finiti sotto la sua lente in passato, «Raffaello - sottolinea - ha solo dipinto. Non è stato un uomo complesso come Leonardo, un pensatore curioso di tutto; non è stato come Caravaggio, un "maledetto" che vive una vita piena di contrasti, non è stato un artista come Michelangelo, pittore, scultore, poeta, architetto. Non ho nessuna empatia con Raffaello, mi sforzo di smontarne la grandezza, ma senza riuscirci». «Raffaello un dio mortale», il libro in uscita domani per le insegne de La Nave di Teseo, comincia così. Il pittore urbinate (1483- 1520) è raccontato senza abbellimenti. In lui per Giorgio Vasari «chiarissimamente risplendevano tutte le egregie virtù dello animo, accompagnate da tanta grazia, studio, bellezza, modestia o costumi buoni, che arebbono ricoperto e nascosto ogni vizio, quantunque brutto, et ogni macchia, ancora che grandissima». E su amori nascosti e sregolatezze assortite Sgarbi si concentra confrontando l'«Autoritratto con amico» (1518-19) del Louvre con l'«Autoritratto giovanile» (1505-6) degli Uffizi: come rendere in opere memorabili gli stravizi che si leggono nei volti, il degrado che si fa declino.

Cosa la muove su questi territori, interessanti quanto impervi?
I miei testi corrispondono alla convivenza lunga con questi grandi artisti. Qualcosa che va al di là della ricerca e della scoperta di artisti sconosciuti anche nell'ottica di una giusta attribuzione di opere e meriti, che rimane la mia funzione primaria.

La sua vocazione è diventata spettacolo.
Sì, da quando ho iniziato il rapporto col pubblico è cambiato, si è fatto più consapevole. Dante, Giotto, Michelangelo, Raffaello: 100 conversazioni all'anno, un modo nuovo di comunicare che mi piace.

L'approccio a Raffaello com'è stato?
Un anno di corpo a corpo: dovevo capire il fuoco, lo spirito centrale dell'artista. «La disputa del sacramento», «La scuola di Atene»: ho meditato sul pittore e sul filosofo, sulla sua visione dell'Occidente. Un universo che respira nei suoi dipinti. Un artista grande, profondo.

Nei giorni scorsi ha dedicato un volume a «Il Rinascimento in Valle Camonica», con la prefazione di sua sorella Elisabetta: un'affascinante esplorazione fra le opere di Girolamo da Romano detto il Romanino, Giovanni Pietro da Cemmo e Callisto Piazza. È forte il suo legame con la terra bresciana: com'è nato?
Il primo contatto bresciano è avvenuto grazie a mio zio Bruno Cavallini. Fu lui, che stava a Iseo, a portarmi ad ammirare le meraviglie di Romanino in Santa Maria della Neve a Pisogne. Parliamo di anni '60, Romanino nessuno lo conosceva. La sua urgenza popolare ne fa un contraltare di Raffaello e del Rinascimento.

Brescia nel 2023 sarà capitale della cultura insieme a Bergamo: questa realtà è più artistica di quanto volesse credere?
Di sicuro la terra di Brescia e dintorni è uno scrigno di arte splendida. L'arte bresciana è meravigliosa da sempre. Savoldo, Ceruti: la tradizione, a Brescia come a Ferrara con la sua scuola, definisce le città in modo implacabilmente preciso. L'anno da capitale della cultura con Bergamo saprà rendere onore alla sua lunga storia di cultura e di creatività.

Con Brescia ha allacciato collaborazioni e progetti molteplici.
Al Mart di Rovereto ho riservato la mostra «Anima e visioni» a Romolo Romani, di concerto con Brescia Musei, visti anche i miei buoni rapporti con il direttore Stefano Karadjov. Inoltre, ho scoperto con gioia un grande artista come Livio Scarpella, che è di Ghedi ma adesso è anche a Genova con la sua statua in onore di Nicolò Paganini collocata all'ingresso del teatro «Carlo Felice». Una chiamata dovuta a un'indicazione data alla Fondazione Pallavicino per una visibilità che è senza dubbio meritatissima. Scarpella parte da una costola di Giuseppe Bergomi, autore classico scoperto negli anni '80.

Possibile metterli a confronto?
Se Bergomi è Moretto, severo e asciutto, Scarpella è Romanino, umorale e irruente. Due modi differenti di esprimersi. La qualità della proposta è comunque altissima.

C'è poi l'amicizia con il restauratore Gian Maria Casella.
Un'amicizia anche progettuale, sì. Sono coinvolto in due operazioni insieme a Casella e a Banca Intesa. Innanzitutto porteremo a compimento il restauro delle tele di Andrea Celesti nella parrocchiale di Toscolano. Progettiamo anche un catalogo su una splendida villa a Bogliaco, villa Bettoni. E, d'accordo sempre con Gian Maria Casella, manderò una mia opera alla Fondazione Zani a Cellatica. Ho idee anche su Sorlini a Carzago. Le idee sono sempre tante del resto: occorre il tempo di metterle in pratica e servono le risorse per poterlo fare.

Quando ha deciso che l'arte sarebbe stata la sua vita?
Ero convinto di fare il letterato, ma l'influenza di mio zio è stata determinante. All'università ho trovato un'altra figura chiave: Francesco Arcangeli, primo allievo di Roberto Longhi. Così, all'inizio degli anni '70 ho deciso di diventare critico.

Sposando l'arte: cos'altro sopravvive fra i suoi interessi?
Una volta amavo dedicarmi all'inseguimento delle donne e alla discesa lungo fiumi come Lao e Trebbia. Conquistare signore e fare rafting.

Passatempi non troppo diversi.
Sì. Ora invece mi dedico all'arte.

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