«Forse sarei stato
liberato prima, ma tutto
si fermò per un attacco kamikaze»

Sergio Zanotti (Fotolive)

Sergio Zanotti ha passato tre anni di inferno in Medio Oriente. Con la paura di essere ucciso. Ma c’è stato un momento peggiore degli altri. «Quando hanno attaccato i russi». Zanotti era in una stanza, prigioniero. E fuori infuriava la battaglia. Ingaggiata tra i suoi carcerieri, miliziani islamisti, e i soldati di Putin, alleati delle truppe di Assad, i «boots on the ground» della guerra all’Isis. Anche se, tiene a precisare Zanotti, chi lo ha tenuto in ostaggio non si definiva Daesh ma Al Qaeda. Comunque, i russi erano al di là del muro dietro al quale era prigioniero l’imprenditore di Marone. E in forze. «Accanto a me due giovani qaedisti di sentinella». Fuori, raffiche ed esplosioni, insomma la guerra. «Sì, è stato il momento peggiore. Temevo che la battaglia prendesse una piega tale che un russo sarebbe entrato sparando nella mia cella. Sarebbe stata la fine. Non avrei fatto in tempo a spiegargli chi ero e perchè mi trovavo lì». Invece, nessun russo è comparso sulla soglia di uno dei circa dieci nascondigli in cui Zanotti è stato sballottato nella Siria sconvolta dalla guerra. Un percorso che è un calvario, finito venerdì. Traslochi, spostamenti frequenti. Per far perdere le tracce.

Ma a chi? Qualcuno cercava Zanotti? «Non so, so che chi mi ha salvato sono degli italiani». Si riferisce a chi lo ha materialmente tirato fuori dall’inferno siriano. Non al lavoro di intelligence a monte, che chiaramente c’è stato. Ma proprio «ai quattro, uno mi ricordo si chiamava Antonio, che mi hanno prelevato dai terroristi e messo su un aereo per Roma». Zanotti sta ancora in una sorta di bolla. Non sembra consapevole proprio fino in fondo di essere a Marone, sul lungolago, e non nel mezzo del “nulla“ siriano («Zanotti scusi, ma ha provato a fuggire? Ci ha pensato, almeno? Sì, ci ho pensato. Ma poi dove andavi, in quel deserto»). Nella sua bolla però non rinuncia all’umorismo: ogni tanto, riavvolgendo i ricordi, si ferma un attimo, sembra allontanarsi con la mente, e fa un mezzo sorriso. A cosa starà pensando? Cosa ci sarà da sorridere di tre anni in balia dei piani fanatici di un manipolo di islamisti non si sa. Zanotti non lo dice. Ma appunto sorride, ogni tanto.

PENSA «ALL’ARABO grassottello che andava di qua e di là del confine turco-siriano negli attimi del rilascio». O forse pensa all’altra volta che i russi sono entrati nella sua vita di prigioniero, sconvolgendola, il giorno in cui - «dev’essere stato novembre» - stava per essere scambiato. Insomma, finalmente sarebbe tornato a casa. «Uno scambio o qualcosa d’altro, non so. Però ero lì lì per essere rilasciato. Avevo appena girato un video-appello di quelli che avete visto anche voi su Internet, quando un kamikaze si è fatto esplodere tra le linee russe. Ne ha uccisi una decina. I miei carcerieri erano felici, si sono messi a festeggiare e lo scambio o quel che era è andato a monte».

Chissà la stizza, la delusione, la paura che ritorna... Ma adesso sul lungolago di Marone tutto sembra distante. Di video «ne ho girati molti di più di quelli che avete visto voi», dice Zanotti. Come avviene per le scene di un film tagliate al momento del montaggio, non tutte le minacce online all’Occidente di Al Qaeda, con Zanotti inginocchiato con la barba lunga, sono finite in Rete. «Mi davano da leggere un foglio scritto in italiano. Con qualche errore. Credo che usassero il traduttore di Internet. Erano le uniche occasioni in cui usavano l’italiano, per il resto si esprimevano o a gesti o in inglese. Normalmente erano a viso scoperto, ma non ci sono stati rapporti umani con loro, solo il minimo indispensabile. Erano quasi tutti giovani, fanatici, nella loro vita non avevano visto che la guerra, convinti che il mondo diventerà islamico alla fine. Io per primo. Mi invitavano a leggere il Corano. Tentavano di convertirmi. I capi invece non li ho potuti vedere in faccia, quando venivano nella mia “cella“ tenevano il volto coperto». Ad uno sotto al passamontagna spuntavano ciocche di capelli biondi, «glie l’ho fatto notare». Un foreign fighters tra i carcerieri di Sergio Zanotti?

VIOLENZE, lo ha già dichiarato, non nè ha subite. Almeno di fisiche. «Non ero in catene, certo non potevo uscire dalla stanza in cui mi tenevano segregato. Salvo alla fine, quando qualche passo all’esterno me lo hanno concesso». Ma tante altre privazioni: «Un cibo quasi immangiabile, acqua da bere schifosa, nessuna igiene orale per tre anni». La dentatura di Zanotti rivela gli stenti della prigionia, denti persi, altri danneggiati. Il senso del tempo da conservare ad ogni costo. «Non avevo che una matita con la quale segnavo sul muro il trascorrere dei giorni. Ma non potevo essere preciso. Così che giorno e mese fossero lo scoprivo con precisione solo quando mi facevano fare uno dei loro video. Perchè prima di giralo dicevano la data». Zanotti conferma di essere partito per la Turchia per acquistare dinari antichi da vendere sul mercato italiano. Una scelta che gli è costata molto cara. «Ho avuto tre anni per maledirla», dice. Così come dice a chi dubita della autenticità della sua tragedia di prigioniero dei terroristi: «Non mi interessa cosa la gente pensa. So io cosa è stato». • © RIPRODUZIONE RISERVATA

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