«Green Hill»,
confermate tutte
le condanne

«Green Hill», confermate tutte le condanne

La Cassazione ha confermato tutte le condanne inflitte in primo e secondo grado ai vertici di Green Hill, l’allevamento di beagle destinati alla sperimentazione dove - secondo l’accusa - sarebbero morti oltre seimila cani tra il il 2008 e il 2012.

La terza sezione penale della suprema corte ha dichiarato ieri inammissibili i ricorsi presentati dagli avvocati degli imputati. Diventano così definitive le pene a un anno e sei mesi di reclusione ciascuno inflitte al veterinario aziendale Renzo Graziosi e a Ghislane Rondot, cogestore dell’azienda di Montichiari, e quella a un anno comminata al direttore della struttura Roberto Bravi. Per tutti gli imputati accusati a vario titolo di maltrattamenti e uccisione di animali senza necessità, è stata ribadita la sospensione di due anni dall’attività. La sentenza rende senza appello anche la confisca dei 2.636 beagle affidati alle famiglie adottive.

SI CHIUDE DUNQUE dopo cinque anni il procedimento giudiziario diventato suo malgrado simbolo della battaglia contro la vivisezione e la ricerca sugli animali. L’onda dell’indignazione scaturita dall’inchiesta che ha portato alla luce i maltrattamenti compiuti all’interno della struttura di Montichiari, ha accelerato l’iter di approvazione della legge che dalla primavera del 2014 vieta in Italia di allevare cani, gatti e scimmie da destinare alla sperimentazione. Ma al netto del dibattito scientifico-etico sulla vivisezione, la sentenza della Cassazione certifica la granitica tenuta probatoria dell’inchiesta condotta dal pubblico ministero Ambrogio Cassiani, che ha stabilito oltre ogni ragionevole dubbio che Green Hill violava la legge. I cani erano costretti a un’esistenza contro natura scandita da uno stillicidio di maltrattamenti e privazioni in attesa di finire i propri giorni fra atroci spasimi negli stabulari dei ricercatori o sui tavoli operatori delle scuole di chirurgia. Condannati ad atroci sofferenze. Sempre e comunque. Nel nome del business. Emblematica a questo proposito l’arringa di Paola Campanaro, che con l’avvocato Vittorio Arena ha assistito la Lav, parte civile nel processo. «A Green Hill essere uccisi era un lusso perché i cani venivano semplicemente lasciati morire: non vi era alcun interesse a curare i cani malati. Le terapie erano costose e comunque avrebbero potuto alterare i parametri delle sperimentazioni. I beagle erano quindi lasciati morire o sacrificati».

TRA LE PROVE PIÙ eclatanti esibite durante i processi l’esorbitante numero di decessi di cani, che avveniva per mancanza di cure idonee: 6023 beagle morti tra il 2008 e il 2012. Ma anche l’unico veterinario che doveva occuparsi di quasi 3000 cani. I beagle non venivano adeguatamente curati: eloquente il caso citato in aula dal pm di un cucciolo affetto da diarrea emorragica, curato con una pomata per gli occhi. I beagle sottoposti a interventi chirurgici venivano anestetizzati con isofluorane senza pre-anestesia, causa di indicibili sofferenze. Sullo sfondo il comportamento compiacente all’azienda di alcuni veterinari della Asl chiamati a vigilare, oggetto del processo Green Hill bis. La prassi di preavvisare le ispezioni era sedimentata e le ricognizioni erano fatte in modo sommario. L’uso di segatura scadente per le lettiere ha causato la morte per asfissia di 104 cuccioli. La filosofia aziendale di Green Hill si specchia in una foto agghiacciante acclusa agli atti, dove si vede un dipendente con un beagle morto con il cervello esposto, che sorridente alza il dito medio.N.S.

Suggerimenti