Bellavista spegne
i trattori e torna
ai cavalli

L’utilizzo dei cavalli favorisce anche l’ossigenazione del terreno

A sancirne il ritorno a passo lento e sbuffante, con la più sacra (enologicamente parlando) delle benedizioni, fu qualche anno fa la tenuta più celebre al mondo, quella Romanée-Conti che da tempo utilizza i cavalli al posto dei mezzi meccanici per coccolare come si deve (anche) i poco meno di due ettari dell’omonimo «domaine», nel cuore della Côte de Nuits, eccellenza assoluta non solo per la Borgogna, ma del vino tout court a livello planetario. Da allora capita sempre più spesso, a chi si muove tra i declivi di Gevrey-Chambertin, Morey-St-Denis, Beaune e Chassagne-Montrachet, di notare uno o più maestosi quadrupedi faticare nel mezzo dei bassi filari, trascinando aratri o erpici.

IL CAVALLO come simbolo del massimo sforzo verso la sostenibilità «utopica», alfiere del biologico inteso non come disciplinare o medaglietta da appuntare sulle etichette, ma come filosofia di approccio alla vigna e al vino, al lavoro e alla fatica. Un esempio. Che al di sotto delle Alpi qualcuno ha già seguito (Gianfranco Fino in Puglia, l’azienda Castello di Tassarolo, in provincia di Alessandria), e che adesso anche la Franciacorta è pronta a fare suo. Grazie a Bellavista e a Vittorio Moretti, che da qualche tempo hanno deciso di rimessare i trattori e di lasciare che siano i cavalli a prendersi cura di una decina di ettari di vigneti che si trovano sul colle che dà il nome all’azienda, in quel di Erbusco; vigne storiche, «Leone de L’Albereta» compresa.

A SEGUIRE il progetto da vicino Ilario Bortuzzo e Luca Barani, con un bretone, un ungherese e due percheron a formare la squadra di «operai» dalla folta criniera. «I temi centrali sono quelli dell’ossigenazione del terreno e della sostenibilità - spiegano da Bellavista - la calzatura e la rincalzatura avvengono con un aratro a mano, non utilizzando mezzi con cingoli o ruote. Il calpestio del terreno da parte dei cavalli favorisce inoltre lo scambio organico e di ossigeno negli stati superficiali. Infine, gli zoccoli producono piccoli spostamenti, a differenza delle ruote dei trattori o dei carri che esercitano sempre il medesimo peso e tendono a compattare la terra, rendendola meno fertile e meno propensa anche al drenaggio delle acque piovane». Non una questione di immagine, dunque, e nemmeno soltanto di impatto ambientale (no petrolio, no scarichi, no fumi nel vigneto). «Il tutto si inserisce nel concetto di gestione biodinamica della vigna, questo è palese. Non viene usato petrolio per muovere i macchinari ma la forza biodinamica dei cavalli da traino. Ma ci sono anche dei benefici effettivi per il terreno e le piante oltre che per l’ecosistema».

IN ITALIA per secoli e secoli sono sempre state le vacche oppure i buoi a trainare gli aratri: l’uso del cavallo, come detto, è di importazione. «I cavalli in genere utilizzati in Italia non sono geneticamente selezionati per fare questo tipo di lavori. Ecco perché si scelgono razze francesi: ce ne sono otto nell’albo delle razze adibite al traino al di là delle Alpi». Cavalli, aratri a mano, vigneti storici e rispetto totale: la bottiglia ringrazia.

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