L'intervista

Vittorio Sgarbi: «Da ragazzo volevo essere un letterato L’arte mi ha reso un uomo felice ma la politica ha bisogno di me»

di Gian Paolo Laffranchi
Sottosegretario di Stato alla Cultura, sindaco di Arpino e mille altre cose, sempre e comunque soprattutto storico e critico d’arte
Sottosegretario di Stato alla Cultura Vittorio Sgarbi è nato a Ferrara l'8 maggio 1952
Sottosegretario di Stato alla Cultura Vittorio Sgarbi è nato a Ferrara l'8 maggio 1952
Sottosegretario di Stato alla Cultura Vittorio Sgarbi è nato a Ferrara l'8 maggio 1952
Sottosegretario di Stato alla Cultura Vittorio Sgarbi è nato a Ferrara l'8 maggio 1952

Ogni giornata una maratona. L’agenda zeppa di tappe come nemmeno un giro d’Italia, impegni senza sosta anche quando è il piacere a imporsi sul dovere. «Sto andando a vedere Aldo, Giovanni e Giacomo» sorride Vittorio Sgarbi. Sottosegretario di Stato alla Cultura, sindaco di Arpino e mille altre cose, sempre e comunque soprattutto storico e critico d’arte. Accademico di San Luca, curatore di mostre, autore di libri come quello appena pubblicato per La Nave di Teseo.
 

Da Raffaello e Leonardo a Michelangelo: nel suo ultimo libro sul Buonarroti, «Rumore e paura», c’è la sintesi del Rinascimento?
È una trilogia che definirei preterintenzionale: non mi sarei mai occupato di artisti così assoluti da non avere bisogno di me; impossibile riscoprirli, il che rende la ricerca meno eccitante. Con Caravaggio, dalla riemersione del 1951, è stato possibile riscoprirne 15. Immaginare che appaiano Raffaello e Leonardo nuovi è invece impossibile. Di Michelangelo, ancor più, è stato detto tutto.

E allora perché?
Perché con Caravaggio da una decina d’anni ho iniziato una serie appassionante di appuntamenti teatrali. Dalla fortunata scoperta di «Ecce Caravaggio» sono passato ad altri grandi da portare in scena. Ho cercato quello che già c’è perché ha senso dialogare con loro. La miscela fra nomi di richiamo e una celebrità del nostro tempo come me ha riempito i teatri. Niente di meglio di Raffaello nella pittura. Leonardo è l’universale, imprendibile. Michelangelo è il Divin Artista. La forza interiore del David, la vertigine della Cappella Sistina: dalla Madonna della Pietà vaticana all’abbraccio tra la madre e il figlio nella Pietà Rondanini, nel mio libro si trovano i teoremi assoluti dell’esistenza di Dio. Una prova razionale e non fideistica.

Le prime opere che salverebbe da un’apocalisse?
Per Raffaello la Scuola di Atene, per Michelangelo la Pietà Rondanini, per Leonardo la Gioconda.

Da bambino com’era Vittorio Sgarbi? Cosa sognava?
All’inizio non avevo interesse per l’arte, ma solo per la letteratura. Quando a 14 anni andai col mio motorino, un Lui, a vedere Giotto, non ne trassi grande emozione. A 18 invece andai in macchina a scoprire il Monumento Funebre a Ilaria del Carretto di Jacopo della Quercia. La prima opera che ho davvero capito: la dimensione della poesia calata nella pietra.

Chi le è stato maestro?
Ho avuto memorabili elementi di riferimento. A cominciare da mio zio Bruno Cavallini: era stato presidente degli esami di maturità a Iseo, con lui andai per la prima volta a Pisogne per le meraviglie di Romanino in Santa Maria della Neve. Avevo 11 anni. Quando mi iscrissi all’università, nel 1970, trovai Francesco Arcangeli: in queste ore è uscito il secondo volume dei suoi «Saggi per un’altra storia dell’arte». Fra tanti professori noiosi di storia della letteratura, mi sembrò vivo. E fu così che passai alla storia dell’arte. Nel ’76/77, infine, l’incontro con l’uomo di teatro Mario Lanfranchi, regista marito della soprano Anna Moffo: era un grande collezionista e con lui mi applicai alla ricerca di opere d’arte, sia per studiarle sia per acquistarle.

Tre grandi artisti nei suoi ultimi libri, tre maestri sulla sua strada, tre bresciani che le sono cari: Giuseppe Bergomi, Livio Scarpella, Giorgio Tonelli.
Ho appena scritto di Bergomi parlando dell’arte di Girolamo Ciulla. Lo sento spesso, è uomo di grandissima intelligenza critica. Sono stato il primo a parlare di lui dopo Elda Fezzi, a porre l’accento sulla scuola bresciana di scultori come Tullio Cattaneo e come Scarpella che poi ho portato a lavorare con me alla ricostruzione della cattedrale di Noto, una vera impresa. E la collaborazione continua. È fra i migliori d’Italia, con la sua formidabile creatività. Sono diventato amico anche del restauratore Gian Maria Casella, in parallelo con un suo ottimo collega: Gianfranco Mingardi, con cui ho fatto tanti restauri ma da cui ultimamente mi sono sentito tradito e mi dispiace molto, anche umanamente. Grazie a me era diventato il restauratore di Berlusconi. Il modo in cui è finito il nostro rapporto è una punta d’amaro nel mio legame con Brescia, che rimane comunque solido e stretto.  

Si è dedicato alla politica senza aver bisogno di visibilità: era già Sgarbi. Perché lo ha fatto?
L’ho deciso e ho cominciato nell’89/90. È la politica ad aver bisogno di me: se tutti gli intelligenti non la fanno, diventa il regno degli stupidi. Da direttore e presidente di musei, come ora al Mart di Rovereto, vedendo all’opera tanti assessori ho pensato che al loro posto avrei fatto meglio io. Ho fatto anche il sindaco e quando diedi la cittadinanza onoraria di Salemi ad Agnese, la vedova di Paolo Borsellino, lei mi ringraziò definendomi «un missionario»: venire dal Nord alla provincia di Trapani per fare il primo cittadino richiedeva coraggio. Sono della linea di Benedetto Croce: al pensiero deve seguire l’azione e solo la politica lo consente. Sono stato sindaco di San Severino Marche, Salemi, Sutri, Arpino e prosindaco di Urbino. L’attività politica è un prolungamento delle mie idee. E la storia delle mie incompatibilità è assurda: sono prima Sgarbi che sottosegretario. Non ho tratto benefici dal mio impegno politico.

Al capitolo hobby ha sempre citato «conquistare signore e fare rafting»: è ancora così?
Purtroppo no. Il rafting mi piaceva molto, l’ho fatto nel fiume Lao, nel Nera, nel Trebbia, in luoghi bellissimi, ma da qualche anno è solo un ricordo. Le donne sono state la mia passione, una caccia meravigliosa nel senso metaforico della parola: non sono sessista, ma un maschilista alla Don Giovanni. Da quando ho avuto il cancro alla prostata però ho interrotto ogni attività. Non mi manca, mi ero talmente divertito... Ora mi occupo solo di arte. Compro opere, a costo di fare debiti.

L’ultimo dipinto acquistato?
È un’opera di quello che ritengo il massimo artista bresciano: un capolavoro di Savoldo. Un paesaggio giorgionesco sublime che ho comprato l’altro giorno a Parigi.

Entusiasmo palpabile. È più felice oggi o quando aveva vent’anni?
Io vivo anche adesso di divertimento e di euforia. Gli ultimi mesi sono stati difficili e gli attacchi che ho subìto mi fanno sentire come il generale Mori, deciso a vendicarsi di chi voleva il suo male. Uomini che, per dirla con Pascoli, preferiscono il male altrui al bene proprio. Ecco, io no: non conosco l’invidia, cerco il bello. Ho appena trovato 12 sculture sconosciute di Canova e per evitare che rimanessero nascoste nelle collezioni ho fatto in modo, col contributo di Banca Ifis, che venissero esposte nella splendida mostra sul neoclassicismo allestita a Lucca. L’arte mi ha reso e mi rende una persona felice.

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