I MIGLIORI ANNI

Aldo Cazzullo: «Da Vasco a Totti, da Fedez a Sorrentino. Amo raccontare le grandi storie italiane»

di Gian Paolo Laffranchi
Il giornalista e scrittore: «Amo scrivere, non saprei fare altro. Una buona intervista? Ciò che conta è sempre la domanda in più»
Classe 1966 Nato ad Alba il 17 settembre, Aldo Cazzullo è entrato da praticante a La Stampa nell'88
Classe 1966 Nato ad Alba il 17 settembre, Aldo Cazzullo è entrato da praticante a La Stampa nell'88
Classe 1966 Nato ad Alba il 17 settembre, Aldo Cazzullo è entrato da praticante a La Stampa nell'88
Classe 1966 Nato ad Alba il 17 settembre, Aldo Cazzullo è entrato da praticante a La Stampa nell'88

Bill Gates. Steven Spielberg. Daniel Day Lewis. Keith Richards. Don DeLillo. Novak Djokovic. Ma è meglio fermarsi qui: impossibile elencare tutti i personaggi intervistati da Aldo Cazzullo, sul Corriere ieri con Francesco Guccini, giovedì prossimo con Gino Paoli. Da decenni giornalista e scrittore di professione, «raccontatore» per vocazione: dalle elezioni presidenziali all’intervista a Francesco Totti.

Totti: una grande storia italiana

Si aspettava che fosse la più letta del 2022?
Tutto sommato sì. La vicenda era ghiotta, ne parlavano tutti: il campione arrivato anche a un pubblico femminile, lontano dal calcio, grazie a Ilary, la brava conduttrice a sua volta arrivata grazie al marito anche a gente che non seguiva le sue trasmissioni. Belli, giovani, simpatici, di successo: una grande storia italiana. La coppia perfetta, finché qualcosa si è rotto. La cosa che mi è rimasta più impressa non è il particolare dei Rolex contesi, quanto il sipario che si chiude: la paura di Totti, che io vedevo come un guascone, quello del cucchiaio nella semifinale dell’Europeo ad Amsterdam contro l’Olanda, disarmato nel momento della difficoltà. Una grande storia italiana. Mi aspettavo avesse presa, anche se poi è stata superata da quelle a Michela Murgia e a Fedez.
 

Più Murgia o Fedez?
Siamo lì, vicini ai 2 milioni di click in entrambi i casi.


Le sue sono le interviste più lette nella storia del giornalismo italiano. Nel 2018 quella più cliccata era stata quella in cui Vialli annunciava la sua malattia. Pagine assimilabili?

Ma di segno opposto. Vialli dice: sono malato, sto lottando. Fedez: sono stato malato, sono guarito. Murgia, invece: sono malata, sto morendo. Qualcosa che non aveva mai detto nessuno. Michela Murgia ha avuto un’uscita di scena grandiosa, da vincitrice: anche i suoi rivali e perfino la destra le hanno reso onore. Ha preferito fino all’ultimo essere odiata e non compatita. Gli avversari l’hanno rispettata, tutti. Dopodiché, pochi giorni dopo la sua morte, come per reazione è esploso il fenomeno Vannacci: come se chi stava dall’altra parte rispetto a Michela avesse bisogno di un suo campione.

Il segreto? Empatia e simpatia
 

Qual è il segreto per una buona intervista?

Prepararsi bene. Leggere tutto quello che si può sapere sul soggetto da intervistare. Empatia e simpatia: aderire, senza compiacere. Credo di aver stabilito sempre buoni rapporti con chi ho intervistato. Salvo rare eccezioni.
 

Per esempio?
Cito Paolo Sorrentino e Matteo Garrone. Di Sorrentino conoscevo la storia terribile della morte dei genitori, che non aveva mai raccontato. Speravo che lo facesse e si è aperto. A un paio di giorni dalla pubblicazione, dopo averci riflettuto, si è fatto vivo: «Ho pensato che è stato giusto così». E ci ha fatto un film. Con Garrone invece è andata male. Lui voleva davvero parlare solo del suo film. Gli ho fatto qualche domanda sulla vita privata e si è limitato a qualche parola, io poi non ho controllato il titolo che è stato fatto su quelle parole e lui mi ha mandato un messaggio: «Con me hai chiuso». L’unico caso, a parte le questioni legali con Cesare Previti che mi ha querelato. Ho avuto altre querele, nel mio lavoro, e l’esperienza mi ha insegnato che le persone che querelano non sono mai le migliori.

C’è stato qualcuno capace di spiazzarla?
Vasco Rossi. Io ero un po’ intimorito: ha fama di burbero, non fa volentieri le interviste, ho pensato «Se sbaglio la domanda mi manda via». Vasco mi ha raccontato gli arresti per droga, ha ricordato quando ha avuto due figli nati negli stessi giorni da due donne diverse. Per lasciare spazio al suo flusso di coscienza ho tolto tutte le mie domande, al che un lettore mi ha scritto: «Bella l’intervista a Vasco, certo che neanche una domanda!». Le interviste sono crudeli: se non piacciono vuol dire che non hai chiesto le cose giuste, se funzionano è merito di chi intervisti.

L’intervistatore dev’essere come il miglior arbitro di una partita di calcio, facendosi notare il meno possibile?
Esatto. Chi intervista deve sparire. Non sopporto i pezzi in cui il giornalista dice «Sono arrivato in anticipo, lui era in ritardo, mi ha versato un bicchiere di vino». 

La sindrome di Nanni Moretti, descritta con feroce sintesi da Dino Risi: «Sei bravo ma spostati e fammi vedere il film».
In una scala da 1 a 10 a un’estremità c’è Moretti: incensato dai media, ma non ho mai conosciuto una persona del pubblico che impazzisse per Nanni. Dall’altra parte c’è Ultimo, che mi ha concesso quella che definisce l’unica vera intervista della sua vita. La critica lo guarda dall’alto in basso, ma riempie il Circo Massimo. È la voce della sua generazione.

Giornalista, scrittore, divulgatore, conduttore. Chi è Aldo Cazzullo?

In fondo si tratta sempre di raccontare storie: questo faccio. Nessuna idea senza una storia, nessuna storia senza un’idea. I miei libri hanno sempre un’idea forte: perché dovremmo vergognarci del fascismo? Perché non riconoscere che Roma non è mai caduta? L’Occidente è una costruzione eretta proprio sulle fondamenta dell’antica Roma.

Ripensare a Brixia per credere.
Sì. E il concetto chiave è che la storia ti riguarda. Quando eravamo padroni del mondo, la guerra dei nostri nonni: non sono io, sei tu il soggetto del nostro libro. Con un’idea di fondo: l’Italia è come la mamma, possiamo parlarne male solo noi italiani. Se lo fanno gli stranieri ci arrabbiamo. Non è una nazione politico-militare, ma artistico-culturale. Dante è il primo a pensare l’Italia, attribuendole la missione di conciliare la classicità con la cristianità. Così nasce questa cultura umanista e cristiana che affonda le radici nella Roma antica e che è il motivo per cui l’Italia è importante nel mondo. Attorno a questo concetto ho costruito 30 libri e 14 puntate di «Una giornata particolare».

Dalla libreria alla tv e altro centro pieno su LA7: riscontri di critica e anche di pubblico. Perfino oltre le aspettative?
Sinceramente sì. Ma ho una squadra molto buona dalla mia.

Amo scrivere, non saprei fare altro

Da ragazzino com’era?
Timido, molto timido. Ho un fratello che ha 8 anni di meno, quindi sono cresciuto da solo. Non sono andato all’asilo, ho cambiato spesso città perché mio padre lavorava in banca e veniva trasferito di continuo: da Alba a Saluzzo e Borgosesia, passando da un’insegnante ottocentesca che si toglieva il guanto per stringere la mano a una maestra sessantottina capellona coi jeans sdruciti. Per il liceo sono tornato ad Alba, quindi il salto alle grandi città: l’università tra Torino e Milano, l’assunzione dalla Stampa a Torino, il passaggio a Roma e l’approdo al Corriere. Roma adesso è una base, ma risalgo spesso al Nord che è la parte del Paese più interessata ai libri, alle trasmissioni storiche. La puntata sulla prima guerra mondiale in Friuli ha fatto il 23 per cento di share, come Maria De Filippi; in Campania il 2. Si vede che non sono stato abbastanza bravo a emozionare i campani. Torno spesso a Brescia dove mi trovo benissimo. Non manco mai un’edizione di Librixia; sono appena stato a Castenedolo, su invito di Gianbattista Groli, e c’erano 500 persone ad aspettarmi in una chiesa sconsacrata.

Ha sempre voluto fare questo nella vita?
Non saprei fare altro. Amo scrivere. Facevo poesie orribili e la maestra obbligava i compagni a impararle a memoria. Loro giustamente mi aspettavano fuori per picchiarmi. Anch’io mi sarei picchiato.

Dove va il giornalismo? Prima di morire il grande Sergio Lepri, ultracentenario, invitava ad abbracciare le novità, tenendo conto per esempio del fatto che non si legge quasi più in orizzontale ma scrollando in verticale.
Ho intervistato Lepri e mi ha insegnato tanto. Sono più ottimista di qualche anno fa: durante la pandemia si è imparato a distinguere il grano dal loglio, le fake news dall’informazione vera.

C’è Mourinho che fa conferenza solo in portoghese o manda il vice in sala stampa: in Spagna e in Inghilterra i giornalisti si alzano e se ne vanno per la mancanza di rispetto, in Italia restano al loro posto. Dobbiamo riappropriarci dell’orgoglio del nostro mestiere?
Io credo di sì. Tanti protagonisti ormai si illudono di poter comunicare col pubblico senza intermediari. Invece il nostro compito è fare tutte le domande, soprattutto quella in più. La prima ma anche la seconda e la terza, quando serve.

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