L’editoriale

La crescita e l’incognita dei tassi

di Antonio Troise

In una partita a scacchi, sarebbe la più classica delle situazione di stallo, con i mercati che continuano a restare alla finestra per spiare le mosse delle banche centrali, a scrutare nei dati che arrivano dagli Usa e dalla Cina, fiutare l’aria che tira per poi tornare nella modalità «stand-by», evitando mosse affrettate. Nulla pesa di più nell’economia come l’incertezza. E le incognite non mancano. A partire dalla variabile più significativa, quella dei tassi di interesse. Chi si aspettava, con un po’ di ottimismo, un’inversione di rotta a partire dal prossimo mese, resterà deluso. Ci sono almeno tre motivi che spingeranno la Bce a far slittare la decisione di 2-3 mesi. In primo luogo la posizione della Federal Reserve americana che, dopo il boom degli occupati registrato a gennaio, è tornata a vestire gli abiti del falco, facendo capire che il rischio inflazione è sempre dietro l’angolo e, quindi, non è il momento di allentare la stretta monetaria. La seconda variabile è quella dei prezzi che in Europa, un po’ a sorpresa, hanno frenato la loro discesa verso la soglia del 2%, anche per effetto dei timori di nuovi rialzi delle materie prime dovute agli assalti degli Houthi nel Mar Rosso, che hanno fatto impennare i prezzi dei noli marittimi e dei trasporto. C’è, infine, un ulteriore fattore che non contribuisce certa a chiarire il quadro: quest'anno si terranno elezioni in 40 Paesi, fra cui anche quelle europee. Il contesto geopolitico, insomma, resta molto teso, anche al netto del conflitto in Ucraina e dei venti di guerra in Medioriente. Quanto basta per spingere le banche centrali sulla linea della cautela evitando salti nel vuoto. Con una differenziale sostanziale, però, fra quello che avviene fra le due sponde dell’Atlantico. Il motore produttivo ed economico degli Stati Uniti ha ripreso a marciare a pieni giri, con un Pil che nel quarto trimestre ha registrato un incremento del 3,3%, largamente superiore alle attese. Mentre, l’Europa, sembra essersi ammalata di quella sindrome della crescita zero-virgola che per decenni sembrava essere un morbo tipicamente italiano. Con queste prospettive, è chiaro che il Vecchio Continente dovrebbe battere un colpo, senza aspettare le decisioni che arrivano da Washington e, soprattutto, senza limitare il suo campo di azione solo alla politica monetaria gestita dalla Bce. Occorrerebbe, in sostanza, spingere di più soprattutto sul pedale degli investimenti. Secondo gli ultimi dati disponibili, gli Stati membri dell’Ue dovrebbero spendere da qui al 2030 circa 418 miliardi di euro all’anno per affrontare le transizioni climatiche e digitali. Il problema sta tutto nell’uso di queste risorse, che dovrà essere non solo efficiente ma coinvolgere i capitali privati. Magari con qualche “follia” regolamentare in meno e qualche margine di sicurezza in più per gli investitori, soprattutto nel medio-periodo. Solo così potremmo uscire dall’attuale situazione di stallo legata al rimpallo delle decisioni fra Fed e Bce e muovere qualche pedina importante per allontanare, definitivamente, lo spettro della recessione.

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