L’EDITORIALE

Le sfide di un'Italia diversa

di Antonio Troise

L'Autonomia differenziata muove il suo primo, vero, passo. La cosiddetta Riforma Calderoli, che ridisegna la macchina amministrativa italiana nel segno del federalismo, ha superato l'esame del Senato dopo un lungo e complicato iter in Commissione. Ora la parola passa alla Camera e non è detto che i tempi siano rapidi. Bisognerà capire se i deputati riapriranno il confronto su tutti gli aspetti del provvedimento, con un nuovo ciclo di audizioni, o se invece si accontenteranno di valutare le norme approvate dai senatori andando diritti al voto. Ma, al di là delle procedure, quello che conta sono i contenuti. E, da questo punto di vista, quello compiuto ieri è solo lo step iniziale di un percorso che non si presenta nè semplice, nè breve. Prima di firmare gli accordi con cui lo Stato può cedere alle Regioni le competenze (ma anche le risorse) che potranno essere «devolute» e gestite in autonomia, bisognerà rispettare due condizioni. La prima è quella della definizione dei cosidetti «Lep», i Livelli essenziali delle prestazioni, vale a dire la quantità e qualità di servizi che dovranno essere garantiti in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale ai cittadini, al di là dei certificati di residenza.

Per ora la Commissione presieduta da Cassese, che avrebbe dovuto definire parametri e soglie, ha ufficialmente terminato il mandato senza aver concluso le sue valutazioni. L'ultima parola spetterà comunque, a Palazzo Chigi, che ha due anni di tempo per approvare i Lep. Come a dire, tempi abbastanza lunghi. Ma c'è un'altra condizione non meno impegnativa: per ogni euro in più concesso alle Regioni che decidono di gestire in proprio una delle 23 materie previste dall'autonomia differenziata, dovrà essere previsto un analogo stanziamento per i governatori che invece passano la mano e conservano l'attuale sistema di distribuzione delle competenze. È l'antidoto introdotto dalla maggioranza per rispondere a coloro che vedono, nel provvedimento, una riforma «spacca-Italia», con la creazione di cittadini di serie A (nelle regioni più ricche) e di serie B (in quelle più povere).

La vera sfida dell'autonomia, invece, dovrebbe essere di dare maggiore efficacia al sistema amministrativo, abbattendo le distanze fra Stato centrale e periferia e dando ai cittadini un maggior controllo sulle risorse a disposizione. Il tutto, evitando di ampliare le differenze fra le aree deboli e quelle ricche del Paese. Nessuno, insomma, vuole perpetuare un sistema che registra, ad esempio, un fenomeno come le grandi migrazioni sanitarie, con decine di migliaia di pazienti che passano da una regione all'altra alla ricerca delle cure migliori. Un copione che, un'autonomia realizzata male, potrebbe ripetersi anche negli altri settori, dall'istruzione all'ambiente, dall'industria agli asili, perdendo così di vista l'interesse nazionale.

Il colpo segnato ieri al Senato deve essere l'avvio di una grande riforma in grado non solo di modernizzare il Paese ma renderlo anche più giusto.

Una scommessa ambiziosa che, tuttavia, può essere vinta soltanto con il massimo dei consensi, comunicando bene gli obiettivi e i possibili traguardi da raggiungere e soprattutto chiarendo, da subito, quali sono le risorse a disposizione per finanziare i Lep. Solo così potremo evitare di trasformare l'autonomia in una bandierina piantata solo per motivi elettorali.

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