LAVORO E TASSE

Precarietà un male che va estirpato

di Franco A. Grassini

Che l’economia italiana sia caratterizzata da una consistente quota di nero è cosa nota e della quale sono ben conosciute le caratteristiche negative: dalla precarietà dell’occupazione all’evasione fiscale. È anche riconosciuto che il nero (e l’evasione fiscale in genere) sia in parte dovuto alle molte e non sempre sensate rigide regole frutto di accordi sindacali non più al passo con i tempi oppure di stratificata normativa pubblica, che burocratizza e lega l’imprenditorialità piccola e grande, affamate invece di agilità. Nondimeno, colpisce il fatto che l’economia sommersa sia cresciuta – e non di poco – durante la crisi provocata dalla pandemia. Lo mette in luce il «Rapporto sulla situazione sociale del Paese 2022» del Censis uscito di recente e, come tradizionale, ricco di dati e acute analisi. Nel 2015, ultimo anno «normale» preso in considerazione, lavorava in nero in Italia il 45% dei lavoratori. Nel 2021, situazione resa più facile dall’incertezza dominante, i precari che sfuggivano alla tassazione regolare erano saliti al 51%. Questi ovviamente non erano distribuiti in modo uniforme nei diversi settori dell’economia. Emblematico di come le cose non funzionino in generale è la cronica mancanza di regole relativa addirittura ai rapporti di lavoro subordinato e precario a servizio di politici eletti nelle pubbliche amministrazioni. Molto spesso questi collaboratori vengono sfruttati e poi scaricati senza avere alcuna effettiva tutela. Il che si ripercuote naturalmente sul regime fiscale a cui sono sottoposte queste persone: se neanche quelli che dovrebbero essere i rappresentanti del popolo si mettono d’impegno per far pagare le tasse ai loro dipendenti… Il settore con il minor numero, il 29,7%, di precari risulta quello industriale, dove i sindacati sono piuttosto forti e maggior peso hanno le imprese di una qualche dimensione, che per l’utilizzo di manodopera si rifanno ai contratti nazionali. Si sale, invece, al 69,7% di precariato nei servizi, dove le piccole aziende prevalgono. Le conseguenze del lavoro precario sono molto negative. Chi non è legato all’azienda in modo duraturo, non è interessato a che la stessa prosperi a lungo e spesso cerca di lavorare con minor fatica, sia fisica sia intellettuale, possibile. Questo finisce per danneggiare sia l’azienda interessata, sia il Paese nel suo complesso, perché l’esperienza del made in Italy insegna che la fantasia dei lavoratori contribuisce in modo significativo all’innovazione dei prodotti e dei sistemi produttivi e, quindi, all’economia. Per ridurre la precarietà lo Stato può utilizzare vari espedienti: per esempio, potrebbe tassare maggiormente chi ne fa un uso particolarmente intenso, ma così si rischia di incentivare il lavoro nero. Come spesso accade, la vera questione è di cultura, nel senso che solo valori veri e sani portano a evitare di sfruttare il prossimo. In Italia sono abbastanza diffusi, ma – come indicano i dati riferiti - non abbastanza. Tocca a tutti noi praticarli e diffonderli.

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