l'intervista

Ottavio Bianchi: «I miei 80 anni da bresciano... in esilio. Il derby nel giorno del mio compleanno? Orgoglioso. E su Maradona vi dico che...»

di Vincenzo Corbetta
Il mister bresciano più blasonato si racconta a Bresciaoggi
Epoca d'oro - Ottavio Bianchi, 80 anni venerdì, e Diego Maradona: a Napoli insieme lo scudetto, la Coppa Italia e la Coppa Uefa
Epoca d'oro - Ottavio Bianchi, 80 anni venerdì, e Diego Maradona: a Napoli insieme lo scudetto, la Coppa Italia e la Coppa Uefa
Epoca d'oro - Ottavio Bianchi, 80 anni venerdì, e Diego Maradona: a Napoli insieme lo scudetto, la Coppa Italia e la Coppa Uefa
Epoca d'oro - Ottavio Bianchi, 80 anni venerdì, e Diego Maradona: a Napoli insieme lo scudetto, la Coppa Italia e la Coppa Uefa

Ottavio Bianchi venerdì compie 80 anni, proprio nel giorno del derby fra Brescia e Feralpisalò.

Bianchi, vista la coincidenza?
Eh sì, e da bresciano ne sono orgoglioso. La Feralpisalò è una bella realtà, cresciuta negli anni; il Brescia ha avuto problemi ultimamente. Un derby storico, da gustare.

Ha pensato a fare una scappata al Rigamonti?
No, non vado più allo stadio da moltissimo tempo per le intemperanze del pubblico. Nella mia vita sono stato in tanti impianti e ricordo bene un episodio agli Europei del 1992. Ero a Stoccolma, c’era la sfida fra la Svezia e la Danimarca, che poi quegli Europei li avrebbe vinti. In colonna c’erano persone vestite di rosso e bianco e di giallo e blù. Guardavano la partita a contatto di gomito. Al momento degli inni nazionali, tutti ad applaudire, idem a ogni azione. Mi ero commosso. Ecco, a me piace lo stadio dove si applaude a una bella giocata; se c’è da fischiare è giusto che il tifoso lo faccia, ma sempre entro i limiti della correttezza, del rispetto degli avversari e del pubblico. Perché senza pubblico è un altro sport.

Lei è di Borgo Trento ma da mezzo secolo vive a Bergamo. Di Brescia cosa ha dentro?
Tutto. La mia famiglia, i miei genitori che ho adorato, i miei fratelli sono bresciani. Sono venuto via da giovane, perché il Brescia mi cedette al Napoli. Per il girovagare della mia professione non sono più rientrato. Adesso vengo più raramente, ma ci ritrovo ancora gli odori e i colori di quando ero bambino, a partire dall’oratorio di Cristo Re dove sono cresciuto. E li riassaporo pure nel cortile dove ogni tanto mi riunisco con i miei fratelli e gli amici d’infanzia: si fa una cena ed è piacevolissimo incontrarci.

Come ha trovato Brescia ultimamente?
Trasformata, più bella e ordinata. È sempre stata una città molto attiva sotto tanti punti di vista. L’unica cosa in cui non riesce a svilupparsi, nonostante le potenzialità economiche e culturali, è il calcio.

Perché?
Intanto il Brescia per i bresciani è sempre stato in seconda linea.

Ma è sempre stato così?
Sì, meno che ai tempi in cui giocavo io e, se permette, me ne faccio un vanto. Era l’epoca di Gei e Lamberti. Andammo in A per la prima volta nel ’65, lo stadio era costantemente strapieno ma solo per un breve periodo. Da Brescia partono tanti pullman di club per San Siro o Torino. A Bergamo l’Atalanta è una fede. Ancora oggi non si dice vado allo stadio, ma vado all’Atalanta: capito, no?

Da quanti anni non viene al Rigamonti?
Tantissimi. Però il primo risultato che vado a vedere è quello del Brescia.

La prima volta a Mompiano?
Brescia-Verona, insieme a papà. Nell’uscire ci trovammo in mezzo a dei tafferugli. Mio padre mi fece scudo perché mi stavano schiacciando contro le barriere. E da allora non ha più voluto che andassi allo stadio.

In biancazzurro ha giocato dal ’60 al ’66 con 97 presenze e 18 gol: non male per un centrocampista. Cosa ricorda?
I miei compagni di squadra: erano persone... non trovo i termini giusti per esaltarli. Non avevo l’auto e mi venivano a prendere per l’allenamento, facevamo sempre tutto insieme e alla fine della seduta si passeggiava in centro. C’erano una genuinità, una spontaneità, uno spirito cavalleresco... Se uno aveva un problema, era il problema di tutti. Da calciatore mai più vissuto momenti del genere.

Qualche nome?
Con Vasini mi sento ancora. Pagani e Fumagalli non ci sono più. Poi Mangili, Salvi.

Altri?
Cecco Lamberti, collaboratore dell’allenatore Gei, mi aveva soprannominato Ottavio Bottecchia l’indipendente. Allora c’era un ciclista di nome Bottecchia che correva senza squadra. Non appartenevo a nessuna cricca, a nessun clan. Lamberti mi aveva etichettato già allora e non aveva sbagliato.

Dei tifosi e dei dirigenti del Brescia niente?
Meglio di no. Mi hanno reso ancor più duro con il loro comportamento nei miei confronti e non ce n’era bisogno, visti i 2 anni di rieducazione per gli infortuni terribili che avevo subito. Qualcuno aveva detto che non sarei più riuscito nemmeno a camminare.

Da allenatore di cosa va più orgoglioso?
In verità non volevo farlo.

E chi la convinse?
Un grande bresciano di nome Mario Ferrari, che dirigeva la scuola allenatori a Coverciano. Mi chiamò e così mi iscrissi al Supercorso.

Meglio fare il calciatore, l'allenatore o il dirigente?
Giocare a calcio è bellissimo, anche se allora non era una professione così ambita. Fare l'allenatore è intrigante, il mestiere del dirigente è più difficile.

È rimasto tecnico dentro?
Da ogni calciatore ho imparato qualcosa. E quando ho smesso, mi sono arrabbiato.

Perché?
Perché iniziavo a capirci qualcosa davvero...

Ha rimpianti con Maradona?
Bisogna distinguere tra Diego calciatore e Maradona. Come dice il suo preparatore Signorini: con Diego faccio il giro del mondo, con Maradona nemmeno il giro dell'isolato. Era pressato dal mondo intero, aveva un peso troppo grosso da sopportare. Lui era felice solo con il pallone: glielo davi e, che ci fossero i bambini o i grandi, si divertiva un mondo. In campo non l'ho mai sentito rimproverare i compagni di squadra, per i quali aveva un rispetto sacrale. Eppure era il migliore. Io ho visto dei mediocri fare certe scenate in campo. Mi creda: molto più difficile allenare i mediocri che i fuoriclasse come Diego.

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