«Il calo demografico pesa sul sistema fiscale e rischia di far saltare tutto»

La formazione: «È stato un errore trascurare i lavori manuali» «La tassazione colpisce imprese e redditi, non le rendite»

¬ Piedi per terra, meno populismo, più coraggio nell'imboccare nuove strade: è il cosiddetto «q.b.». il quanto basta del ricettario elaborato dal professor Gianpiero Dalla Zuanna, docente di demografia all'Università di Padova, una delle voci più ascoltate in materia, che prova ad amalgamare i suoi ingredienti nel tentativo di suggerire al Paese come affrontare la crisi demografica e le conseguenze negative per i conti pubblici. E lo fa con molta franchezza, in alcuni casi anche picconando «miti» che a suo avviso hanno contribuito a creare alcune delle difficoltà in cui ci stiamo dibattendo. Con Dalla Zuanna cerchiamo di capire che cosa si nasconde, quali «minacce» si celino dietro all'«inverno» demografico, espressione entrata nel lessico del dibattito politico per individuare i rimedi da adottare.

Professore, iniziamo dalle considerazioni finali del Governatore della Banca d'Italia in cui trova spazio ancora la questione demografica, in particolare laddove afferma che «il superamento dei fattori che frenano la crescita della produttività è reso ancor più necessario dalle prospettive demografiche. Queste comportano una tendenziale riduzione della forza lavoro che solo in parte potrà essere contrastata da un miglioramento del saldo migratorio e da un aumento della partecipazione al mercato del lavoro». Come possiamo replicare a queste affermazioni, che riflessi dobbiamo attenderci sull'economia da un simile quadro demografico?
Una delle cose più importanti che i demografi guardano quando si considera una popolazione è l'equilibrio tra le diverse classi di età. Negli ultimi decenni il rapporto tra la popolazione in età lavorativa e non lavorativa è stato pressochè costante, lievemente crescente o, perchè è vero che aumentava il numero di anziani, ma nel contempo diminuiva il numero dei giovani, quindi alla fine negli ultimi decenni abbiamo visto un sostanziale equilibrio tra la popolazione in età lavorativa e quella in età non lavorativa. Questo equilibrio ha garantito all'Italia, e anche all'Europa, un prolungato periodo di finestra demografica positiva perchè in società come quelle avanzate europee, in cui esiste una solidarietà fra le generazioni garantita dal fisco oltre che dal risparmio privato; equilibrio fondamentale per evitare che lo Stato e la società vadano in sofferenza. Il problema è che nei prossimi decenni questa situazione verrà meno, perchè i figli del baby boom nati gli anni '50 e '60 stanno progressivamente uscendo dal mercato del lavoro e stanno entrando nella classe d'età over 65, over 70. Ora siccome veniamo da 40 anni di calo delle nascite, malgrado i forti incrementi legati all'emigrazione, il rapporto di dipendenza fra la popolazione in età lavorativa e non lavorativa viene messo fortemente in discussione, con problemi non da poco per tutto l'equilibrio perchè un sistema di welfare come il nostro basato sulla solidarietà tra le generazioni per stare in piedi ha bisogno di un numero di lavoratori sufficienti per garantire le tasse e la previdenza per pagare le pensioni. Se dal punto di vista demografico non abbiamo abbastanza lavoratori per garantire il benessere di chi non lavora, o si cambiano le carte in tavola, che vuol anche dire cambiamento dolorosi, abbassamento delle pensioni, aumento dei contributi; oppure bisogna agire sulla leva migratoria, non c'è niente da fare, tertium non datur. Anche perchè se riuscissimo a intervenire sul discorso delle nascite, immaginando anche di raddoppiarle, il primo effetto sul mercato del lavoro sarebbe negativo perchè vuol dire che ci sarebbe meno gente a lavorare visto che si dovrà occupare dei bambini, e un maggior numero di bambini vuol dire spese maggiori per l'infanzia. Quindi l'effetto sarà benefico nel lungo periodo, ma nel breve no. L'unica soluzione che può funzionare è fondamentalmente la leva migratoria, non c'è altro.

Sulle politiche del lavoro non ritiene necessario procedere ad un maggior orientamento nella formazione capace di recuperare opportunità occupazionali, non a caso si parla di frequente di mismatch?
Certo che si può intervenire, solo che occorre farlo. In realtà i dati ultimi di Alma Laurea hanno mostrato un miglioramento della situazione dei laureati: c'è un incremento sia dei soldi che prendono che un abbassamento del tasso di disoccupazione, per tutta una serie di lauree c'è un buon allineamento tra quello che i giovani hanno studiato e il lavoro che fanno. Il problema è che per ampie aree invece questo non è vero, in particolare quelle di tipo umanistico o per la psicologia abbiamo grosse difficoltà dei ragazzi a trovare un lavoro in linea con il percorso di studio. Credo allora sarebbe opportuno pensare una offerta universitaria che sia in qualche modo allineata al mercato, checchè ne dicano quelli che sostengono che l'università non deve basarsi sul mercato; cose scritte da gente che non ha il problema di trovare un lavoro per i figli o che vive nel mondo delle nuvole. Un secondo aspetto invece è avere una rivalutazione del lavoro manuale. Il lavoro manuale non è diminuito in Italia negli ultimi 30 anni, anzi il numero di lavori che l'Istat definisce a basso livello di competenze, che si può fare senza aver fatto prima studi particolari, è cresciuto negli ultimi 30 anni, non diminuiti. È una scemenza pensare che le società dell'informatica non hanno bisogno di gente che faccia lavori manuali. Bisogna valorizzare il lavoro manuale e anche orientare le persone in tal senso. Tanto per dire, la Confartigianato di Treviso, ma vale anche per Brescia questo ragionamento, ha messo in piedi l'anno scorso un corso per saldatori con dieci posti che garantivano l'assunzione un minuto dopo la fine del corso: hanno avuto quattro candidati e alla fine tutti e quattro stranieri, e solo due hanno finito il corso. Eppure i saldatori sono pagati mica male, se uno è bravo può essere lui che decide quasi lo stipendio. Qui c'è un problema di mismatch che è molto più vasto, culturale, non solo economico in senso stretto. C'è l'idea ancora in molti del figlio laureato, il che va benissimo, figuriamoci, non è quello il problema, è che andrebbe ben che un po' di figli di laureati andassero a fare i saldatori, dovrebbe esserci un rimescolamento sociale basato anche sull'offerta di lavoro effettivo di cui c'è bisogno.

Un ragionamento che porta al nodo dei salari, con le organizzazioni sindacali che lamentano stipendi troppo bassi...
Il problema è questo senza girarci troppo intorno: fino a quando noi avremo una tassazione che è fortemente basata sul lavoro più che sulle rendite e vogliamo mantenere un certo livello di welfare e non riusciamo a intervenire fortemente sul problema dell'evasione fiscale, c'è poco da fare, ci troveremo sempre con dei salari bassi perchè il problema è legato al cuneo, all'alta differenza tra il lordo e il netto. Se tu continui per esempio ad avere una tassazione sull'eredità che è praticamente nulla, da noi c'è una franchigia di un milione ad erede, non esiste da nessuna altra parte in Europa, in Gb pagano il 40 per cento secco su qualsiasi cosa che erediti.

Sacche di privilegio quindi che è difficile scalfire?
Qualsiasi partito volesse parlare solo di cambiare questa situazione ha già perso le elezioni in partenza, in Italia non c'è questa idea di intervenire sui patrimoni, sono considerati intangibili. Però se vuoi mantenere il servizio sanitario nazionale ti costa 120 miliardi l'anno, duemila euro a persona, allora con cifre di questo genere devi avere una raccolta fiscale consistente, e come fai? Devi tassare i soldi dove ci sono, e cosa tassi? Finora gran parte della tassazione è basata sul lavoro dipendente. Se vuoi mantenere lo stesso prelievo devi passare a tassare le rendite, bisogna riorientare tutto il sistema, cosa non facilissima. Che senso ha che il guadagno di una impresa sia tassato al 50 per cento e anche di più mentre la rendita al 20, perchè mai? Altrimenti dobbiamo rassegnarci ad un welfare meno generoso, però qualcuno mi deve spiegare dove tagliare. Tutti sono dettagliati su cosa bisogna spendere, un po' meno su come risparmiare.

Ci sono settori produttivi sui quali concentrare gli sforzi per recuperare mercato?
L'Italia deve impegnarsi in settori ad alto valore aggiunto dove è carente. Si parla ad esempio delle rinnovabili, in particolare il solare, ma se tutti i pannelli li compriamo all'estero ci leghiamo mani e piedi con chi li produce. C'è bisogno di una vera politica industriale geostrategica, l'abbiamo capito con le mascherine che non producevamo più in Italia, meno facile riconvertirsi a produrre panelli solari. Li facevamo tempo fa, poi abbiamo smesso perchè era più conveniente comprarli dalla Cina, come la storia del gas. Perchè abbiamo smesso di tirare fuori il gas dall'Adriatico? Non perchè c'erano i Verdi che facevano casino, solo perchè costava metà portarlo dalla Russia. Se lei va a leggere documenti di venti anni fa tutti suggerivano di prendere gas dalla Russia, era considerata più sicura la Russia dell'Algeria. Lo stesso vale per l'eolico, chi produce le pale? La Germania, non l'Italia. Dobbiamo rivolgersi a settori di alto valore aggiunto che ci permetterebbero inoltre di trattenere in Italia i nostri laureati attirati all'estero da guadagni maggiori e più prospettive di carriera. È necessaria una politica industriale moderna, che favorisca gli investimenti e li indirizzi su settori strategici, che occupano gente qualificata, e lavorare in quella direzione. Un'altra cosa interessante è la legge sugli Its che dovrebbe essere approvata presto dal parlamento. L'idea giusta sarebbe di raddoppiarli questi Its, mettiamoci dei soldi, sono tutti soldi che ritornano il triplo indietro.

L'occupazione femminile: l'Italia sconta a livello europeo un discreto differenziale, di una decina di punti, come si può venire a capo di questo problema.
L'occupazione femminile trent'anni fa era del trenta per cento, c'è stato un grande miglioramento. Per recuperare ancora nel confronto con due Paesi come Francia e Germania occorre che si verifichino due condizioni: cambiamento culturale che è in atto, ma lento nella divisione del lavoro domestico all'interno delle famiglie e un cambiamento importante nelle politiche di conciliazione, con meccanismi che premiano le coppie dove il marito prende il congedo, politiche che permettano di garantire la cura dei figli con costi meno alti di quelli che ci sono adesso. Il bonus nidi qualcosa ha fatto, l'assegno unico va in questa direzione ed ha un pregio che spesso non viene sottolineato perchè una volta che tu cominci a prenderlo lo prendi fino a 21 anni; non è legato all'incertezza del lavoro come erano gli assegni famigliari o le detrazioni, è come una assicurazione, un reddito di cittadinanza che vale per l'esigenza del figlio; varia a secondo di quanto sei ricco, certo, però c'è e resta li.

Il problema demografico si intreccia con il tema delle pensione con forze sindacali e politiche che chiedono una età meno penalizzante rispetto a quanto abbiamo lasciato, che cosa pensa al riguardo?
Su questo non posso che parlare da demografo, noi dobbiamo essere in grado di meritarci lo straordinario allungamento della vita che abbiamo avuto. Abbiamo avuto un allungamento della vita degli anziani negli ultimi 30 anni che non ha avuto pari nella storia dell'umanità. Ciò che era successo fino al 1980 aveva riguardato quasi esclusivamente le persone fino ai 70 anni; dal 1980 in poi c'è stato un incremento delle probabilità di sopravvivenza ben oltre i 70 anni. Questo vuol dire che mentre 40 anni fa era sostenibile andare in pensione a 55 anni, oggi non lo è più, al di là delle assurdità fatte allora con le persone in pensione a 40 anni che ci sono costate un sacco di soldi e continuano a costarci. Adesso abbiamo un'età alla pensione, reale, di 62 anni, che vuol dire che c'è ancora metà della gente che va in pensione prima, non abbiamo insomma ancora una età molto alta. Detto questo che cosa si deve fare: continuare a tenere un sistema che è quello di adesso, che in qualche modo ancora l'età della pensione alla speranza di vita perchè se non fai così rischi che il sistema salti per aria. Perchè se tieni l'età troppo bassa o sei costretto ad abbassare le pensione oppure sei costretto ad alzare i contributi, quindi ad accentuare ulteriormente il cuneo fiscale. Dobbiamo pensare invece a serie politiche di mitigazione, le più difficili da fare, perchè la mentalità prevalente è quella che quando hai finito di lavorare è finita, arrivi all'agognata età passando dalle 40 ore alle settimana impegnato con il lavoro allo stop assoluto, cambi vita di colpo. Io credo che dovremmo andare a trasporre un po' a tutti il modello degli artigiani che normalmente non andavano mai in pensione, parliamo dell'artigiano titolare dell'attività, ma semplicemente diminuivano il lavoro un po' alla volta negli ultimi anni fino a cedere l'attività ai figlio, ad un parente. Nel caso dei lavoratori dipendenti questo potrebbe voler dire un passaggio progressivo dal lavoro alla pensione, prevedere un meccanismo misto di pensione e stipendi: non è impossibile ma bisogna volerlo fare. L'altra necessità è che bisogna entrare un po' nell'idea che per alcune professioni è necessario avere un'idea di cambiamento nell'ultimo tratto della vita lavorativa. Su questo bisognerebbe agire a livello di contrattazione collettiva, come ipotesi di ragionamento, esperimenti, con controllati meccanismi di demansionamento delle persone; e su questo idee che bisognerebbe esercitarsi. La questione insomma è come facciamo a tenere al lavoro le persone tra i 60 e i 70 anni senza che abbiano una vita d'inferno, mi riferisco in particolare ai lavori non intellettuali. Credo che si debba andare avanti in questa direzione, il resto è solo populismo.

Due ultime questioni, in un contesto così complesso come si pone il tema del salario minimo?
Il salario minimo in Italia è una questione complicata. Noi abbiamo l'80 per cento dei lavoratori che sono all'interno del contratto nazionale di lavoro, condizione abbastanza unica in Europa. Il problema riguarda però quel 20 per cento che fanno lavori poco strutturati e che sono spesso molto sfruttati; per questi avere un idea di salario minimo potrebbe essere una cosa utile. Bisogna però stare attenti perchè le cifre che ho sentito di recente, 11 euro, 12 euro tipo la Germania, in un contesto italiano rischiano di trasformare il poco lavoro bianco che c'è in lavoro nero. Non sempre fissare le cose per legge è la cosa migliore, a volte conviene cercare di assegnarla meglio alla contrattazione collettiva, dopodichè per alcune attività particolari il salario minimo può andare bene; però ripeto stiamo attenti a non cedere alle sirene di mettere un salario uguale per tutta Italia, non ha senso per le differenze che esistono nel Paese. Un salario minimo che a Brescia ti permette di sbarcare il lunario in Calabria campi bene.

Dal salario minimo al reddito di cittadinanza, quale è la sua opinione?
Gli effetti diretti al Nord non si sono fatti sentire. In Veneto, faccio un esempio, metà di chi lo prende non è occupabile, sono dei poveri disgraziati, gente che non è in grado di lavorare, marginale, poche migliaia di persone che prendono un reddito, in teoria occupabili. Quello che non funziona del reddito di cittadinanza è che hanno tolto la cosa migliore che c'era del precedente reddito di inclusione: i controlli erano affidati ai Comuni che sapevano che ci marciava, adesso è tutto legato alle agenzie del lavoro che non hanno le strutture per fare i controlli. Andrebbe riformato e riportato nell'alveo dei meccanismi legati al Rei, dopo di che un reddito di ultima istanza, di povertà, c'è in tutta Europa e va mantenuto anche da noi. Perchè fra l'altro se non glielo dai, devi darglielo in altro modo per non farli morire di fame o per aiutare i figli. Teniamo conto che il reddito di cittadinanza è stato depotenziato dall'assegno unico. In realtà c'è molto da lavorare, mi auguro che la prossima legislatura sia quella che questi strumenti che abbiamo in modo pasticciato messo in piedi riescano a trovare una loro maggiore razionalità.