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I cannibali a Brescia: storie crude e crudeli

di Marco Tiraboschi
Un  pasto cannibale come era rappresentato anticamente
Un pasto cannibale come era rappresentato anticamente
Un  pasto cannibale come era rappresentato anticamente
Un pasto cannibale come era rappresentato anticamente

Ci sono storie del passato in grado di fare veramente accapponare la pelle, storie crudeli, di vendetta, simboliche, che avevano forse significato ai tempi degli avvenimenti ma che oggi sembrano completamente prive di senso. Una di queste racconta dei presunti fatti di cannibalismo avvenuti a Brescia durante il sanguinoso assedio del 1311. Mentre Enrico VII di Lussemburgo, imperatore del Sacro Romano Impero, circondava la città, secondo la «Cronaca Varignana», i bresciani che resistevano all’assedio «ogne dì ussivano fuora alla bataglia» e «quanti prendevano de l'exercito de l'imperadore tuti li arustivano e mangiavano», insomma si facevano un bel banchetto con i succosi nemici arrostiti sul fuoco di legna. Quando l’esercito dell’imperatore riesce a catturare il capo dei ribelli Tebaldo Brusato, questo viene portato davanti agli spalti di Brescia e, sotto gli occhi dei cittadini impotenti, il suo corpo è prima trascinato a terra dai cavalli, poi squartato, le interiora vengono bruciate, la testa e il resto delle membra infilzate su pali al cospetto della città assediata. Ma i bresciani non stanno a guardare: in un’escalation di violenza impiccano sulle mura della città tutti i prigionieri, inoltre, narra il Malvezzi, catturato il fratello dell’imperatore, non soddisfatti, i bresciani avrebbero poi fatto a pezzi il corpo e, estratte le viscere, ne arrostirono il fegato per poi mangiarlo.

I bresciani, come sappiamo, sono dei grandi consumatori di carne: siamo la patria dello spiedo, ma amiamo in maniera morbosa anche le grigliate, le carni in umido, i bolliti e i salami. Oggi il consumo, nella nostra provincia, arriva a 70 milioni di chili di carne all’anno. Non siamo a livello degli americani, ma ci difendiamo bene. Un eccesso che arriva dalla tradizione venatoria, ma anche da quella sensazione di rivalsa al ricordo di un’epoca, quella contadina, nella quale della carne non si vedeva nemmeno l’ombra. E allora dagli al porco, via con gli spiedi, sotto con il manzo all’olio in un tripudio di colesterolo al limite dell’infarto, in barba alla dieta mediterranea ma, da qui a mangiare un essere umano c’è una bella differenza!

Il cannibalismo nella storia umana ha avuto diversi significati: mangiando il nemico sconfitto in battaglia se ne acquisiva la forza, da qui anche l’uso tra alcuni popoli di ripicciolirne le teste e portarsele appresso come talismano. Ma l’antropofagismo è anche atto d’amore, di comunione, come il sentimento che spinge i cristiani, simbolicamente, a mangiare il «corpo» di Cristo nel rituale cattolico: nutrirsi della divinità ci rende «simili alla divinità».

Nel Medioevo, dimenticato l’antico significato religioso, il cannibalismo è visto come uno degli atti più abbietti che si possano compire nei confronti di un individuo: abbiamo provato un brivido, tra le sterili aule scolastiche, alle vicende del conte Ugolino della Gherardesca, che Dante sottintende costretto per fame a divorare i propri figli. Streghe ed ebrei erano spesso accusati di cannibalismo, ma poteva anche essere una punizione verso le mogli fedifraghe che erano, a volte, costrette a mangiare il cuore dell’amato. In medicina alcune parti del corpo venivano mangiate per curare malattie come l’epilessia. Quella bresciana è stata chiaramente una storia di vendetta, un ribaltamento di ruoli dove il tiranno diventa vittima, ridotto a bestia da macello, senza identità il corpo diventa una cosa.

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