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Catullo e Sirmione, tra leggenda e poesia

di Marco Tiraboschi
Fino alla metà dell'Ottocento i turisti curiosi spesso venivano accompagnati, nelle notti di luna piena, sulle tracce della leggenda di Quinzia
Un'incisione di metà '800 che rappresenta le Grotte di Catullo
Un'incisione di metà '800 che rappresenta le Grotte di Catullo
Un'incisione di metà '800 che rappresenta le Grotte di Catullo
Un'incisione di metà '800 che rappresenta le Grotte di Catullo

In una calda notte di luglio una bissa dalla vela bianca, governata da un pescatore locale, scivola silenziosamente sull'acqua immobile. Tra l'argento della luna e il nero delle acque profonde una piccola lanterna a olio illumina i volti di un gruppo di eleganti signore e signori che, tra frasi di maniera e sorrisi, si sporgono alla ricerca di qualcosa nel lago: il riflesso di un volto passato, il sogno poetico di un'epoca antica. Sullo sfondo, in cima alla collina, solo l'ombra di imponenti edifici in rovina, testimoni della leggenda. Una scena alla quale, fino alla metà dell'Ottocento, era possibile assistere a Sirmione, nelle acque che circondano le «Grotte di Catullo». I turisti curiosi spesso venivano accompagnati, nelle notti di luna piena, sulle tracce della leggenda di Quinzia che narra di una giovane di Sirmione follemente innamorata di Catullo, che a sua volta ama Lesbia, sua musa e oggetto di desiderio.

Dopo una lunga assenza dal Garda arriva la notizia della morte del poeta. Quinzia, piangendo tutte le sue lacrime nelle acque del lago, dà origine al volto dell'amato sul fondale: un mistico mosaico di dolore visibile solo nelle notti di luna. Una storia che trova origine nella presenza delle vastissime rovine di epoca romana, ricche di marmi, stucchi e mosaici che dal 1400 vengono attribuiti a Gaio Valerio Catullo, esponente della scuola dei neòteroi, che con i suoi raffinati versi che cantando l'umanità nella sua bassezza e grandezza, ha influenzato la letteratura a seguire.

Anticamente, il colle che domina l'estrema punta della penisola di Sirmione, del quale si è perso il nome originale, non era come è oggi. Era un'altura irregolare coperta da un fitto bosco dove enormi voragini e cunicoli si aprivano nel terreno e nella vegetazione, cedimenti improvvisi ne potevano formare di nuovi inghiottendo animali e persone terrorizzate. Si credeva che le cavità fossero spaventose grotte naturali, non diversamente da quelle della Domus aurea di Nerone a Roma, dove la visione delle pitture murali ha dato origine al termine «grottesco».

Il popolo credeva che questi passaggi portassero nelle viscere della collina, poi sotto il lago e ancora più lontano per congiungersi con un'altra grande opera di epoca romana: l'arena di Verona. Ingenue fantasie popolari riportate da Bongiani Gratarolo: nel '600 narra di «una giovane mandriana che, inseguendo una scrofa in fuga lungo quei sotterranei, si ritrovò per l'appunto a Verona». Nel XV secolo in cronista veneziano Martin Sanudo indica le rovine come appartenute a Catullo, basandosi sui suoi «Carmina», così anche Teofilo Folengo.

La curiosità per il luogo attira personaggi come Isabella d'Este e Andrea Palladio. Nei secoli successivi gli archeologi scoprono un'enorme e raffinata villa romana, dotata di giardini, terme, portici panoramici con vista a lago e un bellissimo «criptoportico», una passeggiata coperta per proteggere dalla calura estiva. La villa è stata datata attorno al I secolo d.C., quindi successiva all'epoca di Catullo, ma vengono poi scoperti resti di un edificio più antico. L'appartenenza o meno alla famiglia del grande poeta rimane dibattuta. Certamente, come descritto nel carme XXXI, Catullo amava Sirmione quanto l'amiamo noi: «... È questo il solo premio a tanti affanni. Salve, bella Sirmione, godi con me: e, onde del lago di Garda, godete: ridete tutta l'allegria della mia casa».

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