Brescia insolita

Eno e il marmo nero «pietra di paragone»

di Marco Tiraboschi
Nella piccola località in val Degagna ci sono i resti di una cava, oggi in disuso, dalla quale si estraeva il marmo nero, un tempo rinomato, utilizzato per costruire lapidi sepolcrali, pavimenti di chiese, colonnette di camini e altri dettagli architettonici
Un dettaglio della della Cripta Imperiale degli Asburgo a Vienna, dove è probabilmente stato utilizzato il marmo di Eno
Un dettaglio della della Cripta Imperiale degli Asburgo a Vienna, dove è probabilmente stato utilizzato il marmo di Eno
Un dettaglio della della Cripta Imperiale degli Asburgo a Vienna, dove è probabilmente stato utilizzato il marmo di Eno
Un dettaglio della della Cripta Imperiale degli Asburgo a Vienna, dove è probabilmente stato utilizzato il marmo di Eno

Eno è una località che ha ben poco a che vedere con l'omonimo musicista noto per aver diffuso l'idea di «ambient music». È un piccolo agglomerato situato allo sbocco della rigogliosa e angusta val Degagna. Situato un po' lontano da tutto, collegato agli altri abitati solo da strette strade tortuose ha un nome locale veramente corto: «È»,  un monumento alla tipica concisione bresciana. A soli 3 chilometri a nord del villaggio ci sono i resti di una cava di pietra, oggi in disuso, dove si estraeva un minerale un tempo molto rinomato: il marmo nero di Eno. Questa pietra, considerata pregiata e molto ricercata, soprattutto tra il XVI e XVII secolo, è stata utilizzata per costruire lapidi sepolcrali, pavimenti di chiese, colonnette di camini e altri dettagli architettonici.

Nel 1549, il Consiglio generale di Brescia decide di utilizzarlo per impreziosire il palazzo della Loggia, dove il nero lucidissimo del marmo contrasta la massa chiara dell'elegante edificio. La si utilizza anche per l'edificio di fronte, quello dell'orologio, per sottolineare alcuni dettagli della facciata. Questa particolare pietra è considerata talmente bella da finire tra i decori della Basilica di San Marco a Venezia e, forse, come la tradizione racconta, della tomba di Carlo V, imperatore del Sacro Romano Impero, a Vienna. Il marmo di Eno è definito «pietra di paragone»: i rari marmi di questo tipo erano talmente scuri da poter essere utilizzati per testare la qualità e la purezza di metalli teneri come l'oro. Tracciando una linea su una pietra di paragone, l'oro lascia un segno ben visibile che, a seconda della tonalità di colore, permette di riconoscere la qualità della lega paragonandola a una già nota. Questa tecnica è talmente antica e utilizzata da aver dato origine al figurativo «essere pietra di paragone», per identificare un termine di confronto che chiarisce una situazione.

Il «nero assoluto» che questo marmo prende quando ben lucidato è stato utilizzato anche in ambito pittorico: a inventare (o riscoprire) la pittura su pietra fu il veneziano Sebastiano del Piombo. All'indomani del Sacco di Roma del 1527 si diffonde l'usanza che, annota Vasari, pareva far sì che «le pitture diventassero eterne e che né il fuoco, né i tarli potessero lor nuocere». Così anche il nero di Eno diventa sfondo in opere tardo-manieristiche di ambientazione notturna. Utilizzato per far risaltare in maniera potente le figure, i rossi e gli ori cantano nell'oscurità e le opere diventano oggetto di collezionismo da parte di chi le esponevano nelle loro «underkammer», stanze delle «meraviglie». Il lucido della pietra permetteva allo spettatore di specchiarsi nell'opera entrando a far parte della scena, spostando la prospettiva da osservatore a soggetto. Le opere su pietra di paragone permettevano di creare, attraverso giochi di luce particolari, atmosfere uniche e tenebrose. Questa «moda» persiste per circa un secolo scomparendo, forse perché si scopre che la pietra non è un supporto perfetto, tantomeno eterno, che i dipinti, nel tempo, diventano fragili e vittime dell'umidità. La cava di Eno è dismessa in un periodo imprecisato, probabilmente a causa delle difficoltà in una zona tanto isolata e impervia, quindi con scarso rapporto tra spesa e ricavo. La pietra di Eno rimane comunque parte integrante di un patrimonio artistico non solo locale.

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