Giovani in
lockdown.
Il disagio di Brescia che si scopre fragile

di Marta Giansanti
Il disagio giovanile si manifesta anche in queste forme di isolamento
Il disagio giovanile si manifesta anche in queste forme di isolamento
Il disagio giovanile si manifesta anche in queste forme di isolamento
Il disagio giovanile si manifesta anche in queste forme di isolamento

«Siamo stati tutti hikikomori»: qualcuno si è azzardato a dirlo nel periodo post-lockdown. Niente di più sbagliato: gli hikikomori sono solo dei giovani ragazzi, perlopiù dai 15 ai 25 anni, che «volontariamente» si isolano dal mondo, rifuggono dalla quotidiana routine fatta di scuola, amici e di lavoro. Nulla è imposto. Consapevoli scelgono di rinchiudersi nella propria stanza fino, alcune volte, a raggiungere livelli estremi: «fantasmi» che si aggirano in casa di notte, con i genitori costretti a lasciare il cibo fuori dalla loro porta. Si sentono a disagio con gli altri, insicuri, incapaci ad affrontare il confronto, specialmente con i coetanei. Un disagio accompagnato da un profondo senso di vergogna e di difficoltà ad accettare un corpo adolescenziale in inevitabile trasformazione: da lì il desiderio unico di «nascondersi» in una dimensione virtuale. Una reclusione che può durare anni dopo un processo graduale. Prima, saltano qualche giorno di scuola; poi le assenze aumentano fino a trasformarsi in un conclamato ritiro. Quindi arriva l’abbandono agli amici, allo sport, alle passioni, in un percorso ad ostacoli sempre più alti. SUL TERRITORIO BRESCIANO, di hikikomori, se ne possono contare 2-3 per ogni istituto scolastico superiore. Ma i numeri sono molto più alti. Quasi impossibile avere un dato certo: molti hanno già finito la maturità o terminato gli anni di istruzione obbligatoria, difficile rintracciarli. Inoltre il fenomeno non ha una classificazione ufficiale e si fa fatica a individuare tempestivamente i sintomi perché ancora sconosciuto a istituzioni e genitori. In provincia molti giovani sono in «ritiro» da anni; alcuni non intrattengono rapporti nemmeno con i familiari, e sono soprattutto maschi e di famiglia agiata. «La condizione è stata fortemente aggravata dalla pandemia - conferma la psicologa-psicoterapeuta referente territoriale dell’Associazione Hikikomori, Alida Colpani -. La chiusura imposta dal Coronavirus ha avuto un impatto negativo sia sui ragazzi a rischio ritiro, favorendone il processo, sia al contrario sul lavoro di reintegro in società, interrotto bruscamente. E la presenza costante dei genitori, inizialmente ben vista, ha portato a complicanze derivate da una sensazione di maggiore controllo». Ma – è la previsione della psicologa - «i veri effetti del Covid sugli studenti li vedremo ad inizio del prossimo anno scolastico. Con grande probabilità assisteremo ad un incremento degli abbandoni». Tuttavia, c’è anche chi dall’obbligo della didattica a distanza ha tratto beneficio, accennando a un timido riavvicinamento. Motivo per cui Alida Colpani crede fortemente nell’importanza di avviare «protocolli di istruzione speciali, che permettano di finire gli studi e guardare al futuro professionale una volta superate le difficoltà». Attualmente nel Bresciano poche scuole riconoscono (a fatica) il fenomeno, pensando a lezioni a distanza o a domicilio. Ma ora è urgente intervenire con azioni mirate: «La pressione sui ragazzi è sempre più forte – spiega -. Il dover fare bene, essere all’altezza in ogni circostanza. In passato gli anni dell’adolescenza erano caratterizzati dalla trasgressione, ora dalla delusione da prestazione». È vietato deludere. Si cresce sotto una campana di vetro, «protetti dai genitori, osannati dagli stessi in maniera quasi narcisistica e caricati di aspettative troppo alte perché dotati di particolare intelligenza». Una volta fatto l’ingresso in società, tuttavia, ci si scontra con la propria perfetta imperfezione. Ed è lì che quel castello di carta crolla. Si resta schiacciati perché non si hanno gli strumenti adeguati all’elaborazione delle delusioni. Si isolano, rifugiandosi nel virtuale: l’unica finestra sul mondo. Per questo «l’utilizzo del videogioco non deve essere demonizzato ma compreso e sostenuto». IL RIFIUTO del gioco può essere sintomo di un peggioramento e di un disagio ancor più profondo. «È proibito proibirlo»: perché l’isolamento, al contrario di quanto si possa pensare, non deriva da una dipendenza da computer, ma internet può rappresentare la loro salvezza. «Toglierlo potrebbe causare crisi psicotiche, un ostacolo al loro unico modo di mantenere un contatto con la realtà» in un percorso, che può durare diversi anni, verso una rinnovata fiducia sulla società. •

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