Riscaldamento globale,
gli anfibi diventano
«alpinisti»

di Paolo Baldi
Una larva di tritone crestato immortalata da Stefano BrighentiIl primo piano di una rana temporaria scattato da Rocco TibertiUn tritone crestato maschio fotografato a malga Aguina
Una larva di tritone crestato immortalata da Stefano BrighentiIl primo piano di una rana temporaria scattato da Rocco TibertiUn tritone crestato maschio fotografato a malga Aguina
Una larva di tritone crestato immortalata da Stefano BrighentiIl primo piano di una rana temporaria scattato da Rocco TibertiUn tritone crestato maschio fotografato a malga Aguina
Una larva di tritone crestato immortalata da Stefano BrighentiIl primo piano di una rana temporaria scattato da Rocco TibertiUn tritone crestato maschio fotografato a malga Aguina

Prima della pandemia, la consapevolezza media del surriscaldamento globale era riassunta dalle immagini di bagnanti felici di andare in spiaggia ad aprile. Peccato, perché il problema è serissimo e gravissimo. Al punto, per esempio, da costringere ormai molte specie animali già montane a salire sempre più in alto per sfuggire a estati sempre più roventi. Succede anche a piccoli e preziosissimi animali che hanno possibilità di movimento molto limitate come gli anfibi, e uno studio durato 15 anni in un contesto che più bresciano non si può ha permesso di disegnare uno scenario forse inatteso. Rane, rospi e tritoni, appunto, salgono di quota per sopravvivere (probabilmente) alla canicola. È stato verificato dalle ricerche compiute sul monte Guglielmo, il rilievo che proprio grazie alla presenza di una importante popolazione di anfibi, rappresentata anche da qualche esemplare dell’ormai rarissimo ululone dal ventre giallo (Bombina variegata), un piccolo rospo, è stata definita nel 2016 dalla Societas Herpetologica italica «Area di rilevanza erpetologica» (Are). I protagonisti del lavoro sul campo sviluppato dal 2005 al 2019 sono il naturalista di origine saretina Rocco Tiberti, che lavora per l’Istituto di ricerca sulle acque del Cnr, il ricercatore milanese Marco Mangiacotti, collaboratore dell’Università di Pavia, e l’erpetologo bresciano Rolando Bennati, del Centro studi naturalistici bresciani, in prima fila da anni nella conservazione degli anfibi in provincia. I tre hanno lavorato visitando (e censendo gli ospiti acquatici) per 861 volte la trentina di stagni che si incontrano sulle pendici del Guglielmo (pozze di abbeverata artificiali vitali in un’area calcarea e carsica in cui le acque superficiali non abbondano) soprattutto durante la stagione riproduttiva e dello sviluppo acquatico delle larve delle specie prese in esame, che a queste altezze va da aprile a giugno. QUI, OLTRE all’ululone vive anche la salamandra pezzata (Salamandra salamandra), ma il loro studio si è focalizzato sulla rana temporaria (Rana temporaria), una tipica specie montana legata naturalmente ai climi freddi, sul rospo comune (Bufo bufo) e sul bellissismo tritone crestato italico (Triturus carnifex), e i risultati interessanti nel tempo non sono mancati. Partendo dal presupposto che negli ultimi 40 anni le misurazioni meteorologiche hanno registrato un forte aumento delle temperatura anche sulla montagna presa in esame, corrispondente a un preoccupante +1,5°, e considerando che in montagna la temperatura dell’aria cala rapidamente salendo di quota, di circa un grado ogni 100 metri di elevazione, i ricercatori hanno voluto capire se le delicatissime specie prese in esame avevano reagito in qualche modo. Scoprendo come detto che è successo. Sintetizzando molto, e ricordando che le pozze oggetto di studio si trovano a quote differenti, negli anni presi in esame la rana temporaria è stata osservata nel 90% degli stagni ma ha fatto segnare un innalzamento della quota minima - quella più «calda» - della sua presenza, passata da 1.181 a 1.309 metri. Il rospo comune e il tritone crestato hanno invece ampliato l’occupazione delle pozze, e lo hanno fatto continuando a sfruttare i territori più bassi, ma «arrampicandosi» pure verso spazi più freschi. All’inizio dello studio la prima specie arrivava al massimo a quota 1.664 metri, e si è spinta fino ai 1.863; la seconda usava stagni fino ai 1.652 metri di altitudine, ed è arrivata a «tuffarsi» a sua volta nell’acqua raccolta in una pozza a quota 1.863. Insomma, un «trekking» per niente semplice per animali così piccoli che hanno superato un dislivello di circa 200 metri. Potrebbero sembrare solo dati scientifici curiosi; invece dovrebbero far riflettere perché fotografano una situazione molto preoccupante: fino a quanto gli anfibi e gli altri animali dovranno fuggire per salvarsi dal cambiamento climatico che abbiamo causato e che non stiamo frenando e ancora meno fermando? PRESENTANDO i dati raccolti, pubblicati dalla rivista scientifica internazionale «Biological conservation», i tre ricercatori sottolineano non solo l’importanza di preservare habitat montani come quello preso in esame, ma anche la necessità di tenere aperti quelli che i tecnici definiscono «corridoi ecologici», ovvero pezzi di territorio non degradati e in continuità tra loro vitali proprio per gli spostamenti (in questo caso altitudinali) delle specie minacciate dal clima impazzito. E a proposito di tutela, Tiberti, Mangiacotti e Bennati non dimenticano di ringraziare l’amministrazione comunale di Zone e la Comunità montana del Sebino bresciano per il supporto offerto alle ricerche, ma anche appunto alla conservazione delle pozze del Guglielmo. •

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