la ricerca

«Decessi da virus, risposta negli auto anticorpi»

di Paola Buizza
Dagli Usa il professor Luigi Notarangelo ha illustrato i risultati di un importante studio fatto grazie al materiale inviato dal Civile. Il 20% dei casi analizzati evidenzia la disfunzione, per il 4% dei soggetti è colpa di una variante genetica
Medici impegnati in un reparto  della terapia intensiva per Covid  FOTOLIVE
Medici impegnati in un reparto della terapia intensiva per Covid FOTOLIVE
Medici impegnati in un reparto  della terapia intensiva per Covid  FOTOLIVE
Medici impegnati in un reparto della terapia intensiva per Covid FOTOLIVE

Covid-19 ha manifestazione cliniche diverse da persona a persona: per alcuni è asintomatico, altri lamentano un leggero raffreddore, magari con qualche linea di febbre. Nei casi più gravi si arriva a polmoniti severe che richiedono il ricovero in terapia intensiva o al decesso. Ma perché alcuni si ammalano più gravemente di altri e perché, in certi casi, si arriva anche al decesso? Bastano l’età, il sesso e la presenza di altre patologie ad aumentare il rischio? A quanto pare no. Le risposte sono contenute in una ricerca illustrata dal prof. Luigi Notarangelo, direttore del Laboratorio di Immunologia e Microbiologia Clinica dell’Istituto nazionale di Sanità di Bethesda, che non solo è il principale ente di riferimento governativo Usa per la ricerca biomedica, ma lo è anche a livello internazionale. Notarangelo, che in passato è stato ricercatore all’Università di Brescia e direttore della Clinica pediatrica, è intervenuto in collegamento dagli Usa nel corso del convegno sui primi dodici mesi di attività di Scala 4.0 al Civile. «Grazie ai colleghi di Brescia che hanno condiviso l’enorme quantità di materiale biologico raccolto tra i pazienti Covid ricoverati all’ospedale Civile (ovviamente con consenso) e preziosi dati clinici - ha spiegato - abbiamo avuto le risposte al perché si muore di Covid e perché alcuni si ammalano più gravemente di altri». Che sesso maschile, età e presenza di precedenti patologie avessero un ruolo importante si sapeva, ma qualcosa sfuggiva. «Siamo partiti dall’ipotesi, insieme a un team internazionale, che esistesse una qualche variante genetica che rendesse alcuni soggetti particolarmente suscettibili a sviluppare la malattia in forma grave, tale da finire in terapia intensiva. E l’ipotesi si è rivelata giusta, ma solo per il 3-4% dei pazienti (abbiamo sequenziato centinaia e centinaia di genomi). La scoperta fatta in maniera inattesa - continua - è stata quella che ha evidenziato come il 20% circa delle persone che sviluppava una forma forte di Covid o che moriva, possedesse auto anticorpi che bloccavano l’attività dell’interferone (tra le molecole più importanti della risposta immunitaria ndr)». Anticorpi già presenti o indotti dal virus? «Un successivo studio sulla popolazione ha evidenziato che questi anticorpi sono presenti in quota inferiore all’1-2% tra i giovanissimi e negli adulti fino ai 65 anni. Ma dai 70 anni in poi aumenta in modo importante, fino al 10%». Ora si aprono altri ambiti di ricerca che vanno al di là del Covid, ha concluso Notarangelo. Capire, ad esempio, se questa tipologia di auto anticorpi sia presente anche negli anziani che sviluppano forme di influenza particolarmente gravi. •. P. Bui.

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