LA STORIA

Il declino del duce e l’oro di Brescia: la missiva di Mussolini al governatore della Banca d’Italia

di Pino Casamassima
A fine dicembre 1944 fece trasferire oltre 3 milioni di lire dalla filiale veronese della Banca d’Italia a quella bresciana
Da sinistra Niccolò Introna, Vincenzo Azzolini, Pasquale Troise e Benito Mussolini
Da sinistra Niccolò Introna, Vincenzo Azzolini, Pasquale Troise e Benito Mussolini
Da sinistra Niccolò Introna, Vincenzo Azzolini, Pasquale Troise e Benito Mussolini
Da sinistra Niccolò Introna, Vincenzo Azzolini, Pasquale Troise e Benito Mussolini

Una narrazione segnata da tratti favolistici e propagandistici vuole che dalle tasche del duce appeso per i piedi a piazzale Loreto non fosse caduto nemmeno un centesimo. Recenti ricerche di Federico Fubini hanno dato vita a un libro che dimostra come per vent’anni il regime fascista sia stato teatro di corruzione e ruberie.

Palcoscenici che hanno aperto il sipario anche sulla sede bresciana della Banca d’Italia. Operazioni rapaci compiute sotto le insegne di quella Rsi che ebbe nella cittadina di Salò il megafono propagandistico per la diffusione con l’agenzia Stefani (Ansa nel Dopoguerra) delle varie veline e dispacci del regime fantoccio.

La storia

Il 6 ottobre 1943, cioè due settimane dopo la nascita della Repubblica sociale, a Vincenzo Azzolini, governatore della Banca d’Italia dal 1931, nonché uomo fidato del duce, arriva una missiva di Mussolini in persona: «È necessario provvedere all’estinzione dei due conti in essere, e pertanto ho disposto che gli assegni relativi ai prelevamenti delle cifre di cui sopra, aumentati degli interessi maturati al giorno dell’estinzione, siano tratte dal dottor Vittorio Mussolini, il quale firmerà in calce».

Una disponibilità milionaria

La disponibilità «di cui sopra» è di oltre 10 milioni delle vecchie lire (Ricordiamo che il sogno dell’italiano medio del 1939 era di guadagnare «1.000 lire al mese», come recitava la nota canzone). Al 25 luglio, data del suo arresto, era di 23 milioni. La decina di milioni mancante era stata usata dal governo Badoglio per mano di un ufficiale dal profilo morale integerrimo: quel Giuseppe Lanza Cordero di Montezemolo, prozio del futuro presidente di una Ferrari vincente, nonché eroe della Resistenza, trucidato alle Fosse Ardeatine.

Liberato dai nazisti a Campo Imperatore con la cosiddetta Operazione Quercia dai contorni rocamboleschi se non farseschi, il duce era tornato a capeggiare un governo, seppure fasullo, quale quello di Salò, e da «capo» pretendeva di entrare in possesso di quel malloppo rimasto nella Banca d’Italia.

Gli spostamenti bancari

Il 13 e il 27 ottobre successivi, Azzolini spedisce così alle filiali di Verona e Brescia la stessa lettera, avvertendo che a quegli sportelli si sarebbe presentato Vittorio, il secondogenito del duce «per aprire un conto corrente a lui intestato e verserà a tale fine la somma di dieci milioni».

L’interesse preteso è del 4% (a fronte dell’1,5 ricorrente). Nelle ore in cui il re lasciava allo sbando l’esercito con destinazione Brindisi e con al seguito forzieri di notevole valore economico, Vittorio Mussolini era partito a sua volta da Roma con una valigia che scotta: dentro, ci sono soldi rapportabili a una ventina di milioni di euro attuali. Alla fine del mese di dicembre 1944, con la sconfitta dell’Asse ormai acclarata, vengono trasferiti oltre tre milioni dalla filiale veronese della Banca d’Italia a quella bresciana. Nel febbraio successivo, a due mesi dalla fine, Mussolini fa svuotare la cassaforte del suo ufficio.

Nasce così un’altra vicenda, quella che passa alla Storia come «L’oro di Dongo». To be continued…

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