l'intervista della domenica

Il giornalista Ezio Mauro: «La nostra generazione lascia ai figli un mondo peggiore, soprattutto più pericoloso»

di Gian Paolo Laffranchi
Una delle firme più prestigiose del giornalismo italiano dialogherà di «Democrazia e dittatura: la regola che libera, la regola che opprime» con il presidente dei notai Claudio Mor venerdì 15 marzo alle 18 nel nuovo Palazzo di giustizia (aula polifunzionale Campanato)

Verso futuri giusti, gli incontri organizzati dalla Fondazione Soldano per «LeXGiornate della Legalità» vedranno arrivare a Brescia Ezio Mauro. Una delle firme più prestigiose del giornalismo italiano dialogherà di «Democrazia e dittatura: la regola che libera, la regola che opprime» con il presidente dei notai Claudio Mor venerdì 15 marzo alle 18 nel nuovo Palazzo di giustizia (aula polifunzionale Campanato).

«Il futuro è diventato qualcosa su cui non abbiamo garanzie - si rammarica l’ex direttore de La Stampa e La Repubblica -. Possiamo dirlo anche guardando un saldo che non è positivo: la nostra generazione, quella degli attuali padri, lascia ai figli un mondo peggiore, più pericoloso soprattutto, di quello che i nostri genitori ci hanno lasciato. Eppure loro venivano da condizioni molto più complicate. Dalla guerra. È un fallimento con cui dobbiamo fare i conti».

Cosa ci è successo?
È andato in tilt lo spirito che avevano i nostri padri. Se ci pensiamo bene, nei decenni dalla fine della seconda guerra mondiale a ieri è stata costruita da quella che è stata una vera generazione costituente una rete di organizzazioni, strutture e tribunali internazionali per garantire controlli e meccanismi a difesa dei diritti. Una corazza che ci proteggesse dai pericoli. Tutto questo è stato messo in discussione due anni fa dall’invasione russa in Ucraina. È saltato un ordine mondiale che aveva retto nei decenni.

L’epoca delle ideologie dominanti e contrapposte.
Occidente, Est europeo: divergenti e belligeranti in una guerra fredda, avevano il Muro di Berlino come punto zero su cui confrontarsi. Ma avevano trovato il modo di coesistere, per quanto aleggiasse sempre la minaccia delle bombe. Forse in maniera ipocrita, ma esisteva una concezione comune e condivisa del bene e del male. Adesso non c’è più.

Ha parlato di «disincanto» dell’Occidente sulla questione ucraina, lei che da giovane è stato corrispondente da Mosca e ha raccontato la trasformazione della Perestrojka viaggiando nelle Repubbliche dell’Unione Sovietica. Che idea si è fatto della situazione attuale in Russia? 
Noi ci illudiamo che questa guerra non ci riguardi, ed è uno sbaglio clamoroso. Non siamo al fronte, i nostri figli vanno all’università, al cinema e in discoteca, cenano con noi, non devono combattere. Ma, seppur nelle retrovie, siamo coinvolti. Vediamo che il primo bersaglio sono le città, le case, le strade, le piazze, i corpi degli ucraini, ma il secondo bersaglio immateriale sono i nostri valori occidentali. Questo ci deve far sentire attaccati. Anche la nostra libertà è minacciata. In che cosa crediamo noi europei? Nella libertà, nella democrazia, nell’autodeterminazione dei popoli, nel rispetto della sovranità, nella prevalenza del diritto sulla forza. Come facciamo a non capire che questi princìpi oggi come oggi sono sotto attacco?

Cosa dobbiamo dedurne?
Innanzitutto mi vien da dire che crediamo nei nostri valori soltanto quando credere non costa nulla. Quando compiere una scelta, decidere per esempio di dare le armi all’Ucraina e di aiutarla finanziariamente, comporta un rischio, preferiamo scaricare il problema. Finché le difficoltà sono lontane va tutto bene, a parole siamo bravissimi. Quando si tratta di agire, invece non siamo all’altezza delle cose in cui diciamo di credere.

Non si deve ripartire dalla scuola? Magari mettendo l’accento sulla valenza, e sull’importanza nella bilancia dei voti di una materia come l’educazione civica?
Certamente. Bisogna educare le persone a diventare cittadini. Noi fortunatamente siamo cittadini anche quando non siamo informati dei nostri diritti e di quelli degli altri, e per questo procediamo ciecamente. Non siamo sotto una dittatura, ma la nostra democrazia avrebbe bisogno di cittadini consapevoli. Portatori di diritti ma anche di doveri, consci delle proprie responsabilità. Questo rende veramente liberi. Invece si sta facendo strada una concezione di libertà diversa e inferiore: tu sei libero nel momento in cui ti sei liberato da ogni vincolo nei confronti degli altri e puoi pensare solo a te stesso. Questa riduzione in senso egoistico è una egolibertà, così la chiamo io. Un concetto che si modifica e si restringe. Lo spirito dei tempi mi autorizza a pensare solamente ai fatti miei. Questa è considerata una scorciatoia per la libertà, ma è un’illusione.

«Nessun Mussolini, ma anche nessun Nenni, nessuno Sturzo, nessun Turati, nessun Gramsci»: lei ha avuto modo di sottolineare come il panorama politico sia cambiato, generalmente impoverendosi. Ma ci sono due leader donna, per la prima volta: un segnale di progresso.
Due donne: una novità importantissima in un sistema che da un lato è anchilosato, ha scarsa presa sull’opinione pubblica come dimostra la scarsa affluenza al voto, ma dall’altro è molto giovane, perché i partiti italiani non hanno impianti di tradizione, sono nati mercoledì scorso ad eccezione della Lega che però è mutata nel tempo geneticamente. Il fatto che ci siano due donne al comando, e che siano giovani, può rappresentare un salto di qualità significativo. Negli Stati Uniti il dibattito è su due candidati molto anziani quali Biden e Trump, anche se gli errori di Biden vengono costantemente attribuiti all’età mentre pare che quelli di Trump siano dovuti soltanto alla sua irregolarità di base. C’è una parte del mondo guidata da settantenni come Putin, come Erdogan. Ma ci sono anche leader giovani, come succede fortunatamente in Italia. Dove questo non accade prossimamente verrà chiesta a chi governa la data di scadenza.

I primi passi scrivendo di terrorismo nero negli anni di piombo, le esperienze da inviato, cinque lustri da direttore: com’è cambiato e dove sta andando il nostro mestiere?
Materialmente la rivoluzione è stata passare dalla linotype al web, dal piombo al silicio. Nella sostanza internet ha cambiato il mondo, rendendo tutto ubiquo. Si può leggere adesso ciò che succede adesso: ci si muove sui social pensando di immergersi nel contemporaneo. Ma il giornale fa qualcosa che i social non fanno: quando arriva una notizia la pesa, la misura, la mette in scala con le altre e stabilisce una gerarchia. I social sono l’antipasto, non il pasto completo, e ci si nutre male limitandosi a quelli. Il giornale non è solo veicolo di notizie, ma ti dà una chiave interpretativa. Non posa le notizie a caso, lo fa con un disegno. Rinunciando al giornale, rinunci a quel disegno.

Se non avesse fatto il giornalista?
Ho sempre pensato a questo. Alle medie feci un giornale ciclostilato che fu subito sequestrato: non avevo chiesto il permesso, l’avevo fatto col mio amico figlio del tipografo del mio paese. Ho fatto giornali nel liceo e nel collegio, un mensile a Dronero e c’è ancora. Potevo essere avvocato, potevo essere archivista: professioni che considero affini. Ma dovevo essere giornalista.

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