«Un posto al sole dal Garda a Napoli Passione e felicità»

La valigia dell’attore dev’essere leggera. Quando parti non sempre sai fino a dove arrivi, quanto ti fermi. «Càpita di non far niente per un po’ e poi di fare 3-4 cose belle di fila» esclama Elena Vanni, il sorriso luminoso di un momento magico. «Un posto al sole» è suo. Dopo tanti chilometri, tanto lavoro, altrettanta fatica. «A volte penso che sia questione di incontri, di convergenze felici - riflette l’attrice, origini salodiane e radici piantate anche a Roma, dove recitare è più facile -. E sono scelte di vita. Come quando da ragazza facevo le prove al pomeriggio col mio gruppo teatrale, invece di andare sul lungolago a passeggiare. Camminavamo dopo, uscendo sul tardi a berci le birre, rilassandoci insieme. Eravamo un po’ come quelli dell’Attimo Fuggente, era il nostro periodo rock. Dal Garda a Napoli, dai primi palchi alla Rai. Un bel viaggio. «Un posto al sole» è un bellissimo regalo per me. Arrivare a Napoli, andare alla Rai, una gioia pazzesca per me che non sono nata per stare ferma: sono cresciuta in un campeggio a Manerba, vivo in treno. Napoli è «il» teatro. Vai al bar e vedi una scatola di cioccolatini a cuore, con la scritta «Ti schifo assai». La troupe è una famiglia, l’ambiente è accogliente e adoro le persone che ci seguono, a Napoli sentono la serie come una cosa loro. Nella soap lei è Delia Caracciolo Leone, la moglie di Aldo. Quante puntate saranno? Fino alla fine dell’anno 35, tra ottobre, novembre e dicembre. Ma ne giriamo tante insieme, a volte anche 11 scene al giorno. I ritmi sono serrati e prendere le misure con la telecamera è indispensabile, ti scruta da così vicino. Il mio personaggio mi piace: è una donna forte e ironica, simpatica e innamorata, in lotta con le sue contraddizioni. Felice di poterla incarnare. La macchina organizzativa, poi, è eccezionale. Girare a Napoli è uno spasso: quando sto con Paolo Romano, o prendo un aperitivo con Luca Capuano, la gente ci ferma: «Mia mamma vi segue sempre»... «Un posto al sole» è casa loro. Ci conoscono tutti, è passione vera. Luoghi comuni sui bresciani? Naturalmente. Ma io smentisco ogni stereotipo, glielo ricordo sempre: «Guardate che noi bresciani siamo le persone più accoglienti del Nord, guardate che Brescia è una città veramente accogliente e divertente». Capisco la diffidenza, ma quando salgono da noi capiscono che ho ragione: «La tua famiglia sembra del Sud», mi dicono. E hanno ragione. La differenza è che al Sud ci si rilassa, al Nord no. L’ideale sarebbe trovare il giusto mix fra mondi ancora un po’ distanti. A Brescia lei ha vinto il Premio alla memoria di Lidia Petroni e tenuto «Lezioni di Storia» al Teatro Grande. Calca le scene da oltre vent’anni. Il percorso è stato più complicato, partendo dalla provincia? Devi costruirtele, le occasioni. Scegliere le persone prima dei percorsi. Per me è importante fare rete, ampliare gli orizzonti. È pieno di attori e attrici di valore. A volte si lavora a volte no, poi un provino può risolvere e darti una grande chance. Da bambina voleva far l’attrice? No. La parrucchiera. Poi al liceo Fermi ho visto un cartello: «Cercansi attori». Non c’era scritto «attrici», ma sono andata lo stesso. Ho iniziato con Marzio Manenti, finito con Cesare Lievi al Teatro dell’Acqua. Grazie all’Antigone ho capito che quel mondo era magico, e mi interessava in tutte le sue sfaccettature. Ho lavorato anche nell’organizzazione, parallelamente. Io vorrei fare l’attrice, comunque. Laureata in filosofia, ha fatto teatro, televisione, cinema, videoclip. Cosa le piace di più, del suo mestiere? La fascinazione di poter essere altro, altre. Anche il fatto stesso di andare a teatro, di stare sul palco quando i tecnici smontano, di poter fare. L’artigianato, mi attira anche questo del mio lavoro. Aveva un idolo? Avevo il poster di Tom Cruise. La mia profe d’inglese mi disse di toglierlo dalla classe. Ero adolescente, ma non era in fissa. Oggi è in perenne movimento. Di recente ho partecipato a un bando per lavorare tre mesi con Tomi Janezic, nei boschi di Lubiana. In passato sono stata alla Scuola di Teatro di Bologna come in Danimarca, interagito con danzatori olandesi e inglesi. ho conosciuto realtà differenti, assimilato varie mentalità. Ora sono parte di me. A Krusce, con Tomi, ho trovato una palestra indipendente. L’avevo conosciuto grazie a Francesca Farcomeni, che mi aveva caldeggiato «Il Gabbiano, di un regista sloveno davvero bravo». L’ho visto e ho pensato «wow». Tomi parla dell’importanza dei processi, della costruzione di uno spettacolo che è un processo collettivo. Gli avevo mandato una mail quasi per scherzo e dopo mesi mi ha risposto. Ha questo centro, «Workcenter for artistic research, creation, residency and education»: 5 case nei boschi vicino a Lubiana, un luogo di ricerca internazionale che mi corrisponde tanto. Il mio ambiente, sul piano umano e su quello artistico. Mi fa sperare per il futuro. Se si guarda indietro, e dentro? Sono affezionata a tante cose. Al periodo danese, al lavoro con Tage Larsen, e alla commedia grottesca «Bim bum bang», un’idea nata con Riccardo Borsoni. Tage è venuto a Salò a mangiare lo spiedo ed è stato fantastico. Spirito da cowboy, cura organizzatissima del particolare. Si fa quello che serve e lo si fa bene, senza stressarsi: la mentalità nordica. Considero Tage il mio maestro innanzitutto da un punto di vista affettivo. È sempre rimasto legato alla visione della professione come profonda e leggera nel contempo. «Elena è grasso sul burro, è troppo, non facciamo così»: quante volte me l’ha detto, Tage, tendendo a rendere tutto più agile. La creatività per me passa da queste collaborazioni. Dal confronto. Lo schema «regista capo, attore sottoposto» non fa per lei. No, non credo nell’utilità della figura del regista che massacra l’attore. Credo nel dialogo. È impegnata su più fronti. Cosa sta facendo adesso? Oltre all’esperienza di Lubiana, dove vorrei dar vita a qualcosa di nuovo e ulteriore, ho in uscita il film «Un figlio di nome Erasmus», con Luca e Paolo, regìa di Alberto Ferrari. E sto portando in giro Arem, il format d’improvvisazione Agenzia Recupero Eventi Mancanti. Il sogno è farlo fino a ottant’anni. Parola d’ordine? Gruppo, che per me è sinonimo di progetto. Nasco così, per me ha senso così. Faccio gioco di squadra anche con mio figlio nella soap, Matteo Santorum, che ha 19 anni e viene da Riva: due gardesani, la troupe scherza sull’invasione nordica... Noi ci confrontiamo sulle scene e su tutto. Io non sono quella che va, dice la sua parte e buona sera. Vorrei distruggere anche il mito dell’artista schivo, delle donne che non collaborano. A Brescia ci sono grandi esempi di collaborazione femminile come Teatro19. Fare rete è davvero l’unica via, se sei teatrante. Altrimenti muori. Ha del tempo libero? Mi sono iscritta alla scuola popolare di musica del Testaccio, quando non sono in giro in mille posti ci vado. Da tre anni cerco di imparare il clarinetto. Ho adorato questa cosa di iniziare qualcosa a 38 anni. Stupendo dover imparare qualcosa da zero. Capisco meglio anche cosa pensano i miei allievi, quando cerco di spiegarmi. Cosa desidera adesso? A parte una vacanza di tre settimane alle terme? Direi che amo lasciarmi stupire. Credo nel flusso. Nello scambio. Nell’importanza di costruire ponti. A volte tengo troppo alle cose e divento insistente, ma essere fighi per me significa fare cose belle e volerne fare di bellissime. È l’entusiasmo il motore del mondo.

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