L’editoriale

Se la crescita torna a frenare

di Antonio Troise

L’anno scorso il grande nemico da battere era l’inflazione: ha spinto la Bce a rialzare i tassi di interesse e raffreddare l’economia. Il rallentamento delle attività era conseguenza inevitabile della stretta monetaria. Ma ora che i prezzi hanno imboccato un trend discendente, a complicare il percorso della ripresa è soprattutto l’incertezza dettata dalle tensioni internazionali e dai venti di guerra che dall’Europa al Medio Oriente fino al Mar Rosso e all’Africa, stanno mettendo a dura prova la tenuta dell’economia globale. È chiaro che questi scenari impattano in maniera forte anche sulla produzione industriale. I dati diffusi ieri dall’Istat, relativi per la verità al 2023, non fanno altro che confermare quel rallentamento della macchina produttiva che era già evidente nella seconda parte dell’anno scorso. La novità è che ora la crisi potrebbe estendersi per tutto il 2024. Non a caso le principali istituzioni, dalla Banca d’Italia alla Commissione Europea fino al Fondo Monetario, hanno rivisto al ribasso le previsioni di crescita di quest’anno portando la stima del governo dell’1,2% ad un più prudente 0,7-0,8%. Per carità, nulla di catastrofico considerando che anche così siamo al di sopra della media europea.

E che, se gli investimenti del Pnrr marciassero più speditamente, i dati potrebbero sicuramente migliorare. Ma il problema è molto più ampio e la crisi che abbiamo di fronte è molto diversa da quelle importate nel 2008 dallo choc dei mutui subprime o, nel 2011, dall’attacco alle Torri Gemelle o, ancora più recentemente, dai lockdown conseguenti alla pandemia. La verità è che l’Europa sta affrontando una crisi strutturale legata alla forte perdita di competitività del suo apparato produttivo. Se a questo si aggiunge il rallentamento dell’economia cinese, che negli ultimi venti anni ha contribuito per un terzo alla crescita mondiale, e l’incertezza della locomotiva americana, dove l’inflazione fa ancora paura, il quadro che viene fuori è decisamente allarmante. Scenari che consentono di comprendere ancora meglio il grido di allarme lanciato pochi giorni dall’ex premier, Mario Draghi, al quale la presidente della Commissione Europea ha chiesto di mettere a punto un report sul rilancio del Vecchio Continente. Per uscire dalla crisi, insomma, non bastano più «pannicelli caldi» o ricette estemporanee o, peggio ancora, strategie di breve durata. É necessaria, invece, una nuova consapevolezza del momento difficile che attraversa tutta l’economia per superare, una volta per tutte, quei lacci che ancora soffocano l’economia europea e, naturalmente, quella italiana. Il segnale che arriva dal fronte della produzione industriale non va, quindi, sottovalutato. Senza creare allarmismi ma con un sano buon senso, occorre rimettere al centro della politica le questioni della crescita, degli investimenti e del lavoro. Anche con scelte coraggiose. Draghi ha spiegato che è arrivato il momento di superare la stagione dei veti e dei «no» dettati, soprattutto, dalla difesa di interessi nazionali o di parte. Un monito che l’Italia farebbe bene ad ascoltare tornando con forza ad una stagione di riforme, meglio ancora se condivise.

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