La novità

Il Wim Wenders analogico dei giorni perfetti di Tokyo

di Luca Canini
letterboxd.com/RivBea79
Il regista di «Alice nelle città» e «L'amico Americano» torna nel Giappone del maestro Ozu per raccontare la quotidianità fuori dal tempo e fuori dal mondo di un uomo solo
I protagonisti Koji Yakusho, premiato a Cannes per la sua interpretazione, e Arisa Nakano
I protagonisti Koji Yakusho, premiato a Cannes per la sua interpretazione, e Arisa Nakano
I protagonisti Koji Yakusho, premiato a Cannes per la sua interpretazione, e Arisa Nakano
I protagonisti Koji Yakusho, premiato a Cannes per la sua interpretazione, e Arisa Nakano

Sta racchiuso tra due momenti precisi il senso profondo di «Perfect Days». Il primo in coda al lunghissimo incipit, in un locale che Hirayama, il protagonista, frequenta da cliente abituale: «Come vorrei che tutto restasse così com’è», sospira la proprietaria mentre distribuisce l’insalata di patate. Il secondo poco prima del (meraviglioso) finale, con lo stesso Hirayama, durante una bevuta con un quasi estraneo, di quelle che i giapponesi e i coreani si concedono per schiarirsi le idee con una solenne sbornia, che prova a dare forma di parole agli strani pensieri che gli pesano sul cuore: «Se non cambiasse mai niente sarebbe assurdo, impossibile». Ecco, misurate in umanità la distanza che separa queste due battute del copione, scritto dal regista di «Paris, Texas» con Takuma Takasaki, e avrete le coordinate del viaggio al centro della nostalgia al quale ci invita il quasi ottantenne Wim Wenders.

Che torna dalle parti del divino Ozu a poco meno di tre decenni dal pellegrinaggio raccontato in «Tokyo-Ga» (1985), inchino sotto forma di documentario al padre nobile del cinema giapponese. Stavolta però siamo nel campo della pura fiction, immersi fin dai primi fotogrammi (fronde mosse dal vento inquadrate dal basso: curioso, come in «Il male non esiste» di Hamaguchi) nella vita ordinaria di un uomo solo: un addetto alle pulizie dei bagni pubblici di Tokyo che si è ritirato dal mondo, dal presente, dagli affetti, e che vive aggrappato alla certezza delle piccole cose, dei riti quotidiani, alla gioia e alla bellezza del creato che ogni mattina gli dà una ragione per aprire gli occhi, alla dignità del lavoro che svolge con totale e commovente dedizione.

Un uomo «analogico», nascosto tra libri usati e musicassette, che parla il meno possibile, quasi avesse paura di attirare l’attenzione del caos, e che solo di tanto in tanto vede incresparsi la superficie del suo angolino di metropoli. Non è che succeda molto in «Perfect Days»: un giovane collega di Hirayama gli chiede la macchina e qualche soldo in prestito per portare fuori la sua ragazza (l’irresistibile Aoi Yamada: se volete conoscerla meglio la trovate su Netflix, nella splendida mini-serie «First Love»); la nipote Niko per un paio di giorni scombina piani e routine del nostro eroe; un bambino perde la mamma in un grande parco; un senza tetto si muove flessuoso tra le piante e lungo le strisce pedonali (il danzatore Min Tanaka, leggendario artista che tra i tanti ha collaborato con Cecil Taylor, John Cage e Derek Bailey).

Lo sguardo partecipe La macchina da presa registra con affetto i moti impercettibili della solitudine di Hirayama, personaggio affidato a un attore enorme come Koji Yakusho («Kamikaze Taxi», «Cure», «Charisma»), non a caso premiato a Cannes per la sua interpretazione. Il resto lo fa la colonna sonora («Perfect Day» e «Pale Blue Eyes» di Lou Reed, Van Morrison, i Kinks, «The House of the Rising Sun» anche nella versione di Maki Asakawa, Otis Redding, Patti Smith, Sachiko Kanenobu), che funziona da catalizzatore di emozioni, da ulteriore accumulatore di nostalgia, da suggeritore. Wenders si affida alla musica per farci sentire quello che sente il suo protagonista, per dare vita e sostanza di verità a ciò che (non) succede sullo schermo. Con toccante partecipazione, da uomo-artista che si sente arrivato alla fine del suo tempo, che ha tutto il diritto di dichiararsi estraneo, di voltare le spalle. Ma senza rinnegare la forza della vita, senza perdere la tenerezza e la compassione.

Ed è qui che sta la grandezza del film. E di un finale che sarebbe piaciuto a Bresson e che ricorda il Charlie Chaplin di «Luci della città» e le «Notti di Cabiria» di Giulietta Masina. Sguardo in camera, occhi che si riempiono di lacrime, Nina Simone e «Feeling Good»: okaeri, maestro Wenders. Bentornato a casa.

Suggerimenti