Una democristiana doc
fra spirito di servizio
e battaglie per le donne

di Luciano Costa
Tina Anselmi nella sua casa
Tina Anselmi nella sua casa
Tina Anselmi nella sua casa
Tina Anselmi nella sua casa

Luciano Costa

Tina Anselmi, onorevole democristiana tutta d’un pezzo, cristallina come le acque delle sue montagne, incapace di barattare con un «se» o un «ma» le sue convinzioni, anima serena e gentile, se n’è andata alla maniera dei «puri e forti», quelli che hanno dato credibilità alla politica, che hanno fatto della politica un saio da indossare per servire, mai per essere serviti.

ERA NATA e vissuta nel cattolicissimo (almeno allora) Veneto, ma si sentiva a casa anche quando - come capitava di sovente - arrivava a Brescia, all’inizio per questioni e impegni sindacali - era una Cislina convinta e volentieri si confrontava con i «nostri», sempre sulla breccia e sempre pronti a mettere in campo ideali e valori -, poi per dare cuore e anima alla politica democristiana, quella orientata da Aldo Moro, che ai suoi, e Tina era tra questi, non chiedeva ubbidienza, ma solidale partecipazione all’edificazione di una città per tutti, cioè libera, democratica, rivestita di cristianesimo operoso e fedele.

I «suoi» amici democristiani, a Brescia e provincia, erano Franco Salvi, collaboratore stretto di Aldo Moro; Mino Martinazzoli, giovane che già metteva le ragioni della politica davanti anche alle più sincere e nobili convenienze; Piero Padula, arcigno interprete dell’inflessibilità democristiana rispetto ai compromessi e ai trucchi dei mestieranti; Fabiano De Zan, sostenitore del dialogo tra le correnti anche quando i contrasti interni parevano allontanare piuttosto che unire, e Cesare Trebeschi, cristiano e forse non democristiano, ma sempre dalla parte dell’uomo e della città da edificare secondo giustizia mettendo all’interno un soffio d’anima in più. Poi, alcune donne impegnate nel mondo cattolico e mai disgiunte alla buona politica - Livia Feroldi, Nella Berther, Maria Capoduro, Laura Bianchini, Vittoria De Toni, Marta Reali e tante altre di cui si è persa la memoria -, le giovani che sognavano un ruolo dentro la politica da svolgere con pari opportunità, come Maria Rosa Inzoli, Enrica Lombardi, Maria Teresa e Marcella Bonafini, Doralice Vivetti... Poi un buon numero di preti illuminati - i padri Bevilacqua, Marcolini, Caresana, Manziana e Cittadini della Pace, don Peppino Tedeschi, amico di quel Giovanni Battista Montini destinato a diventare Papa e Beato, don Mario Pasini, direttore de «La Voce del Popolo» e dal 1960, sollecitato dal «vecchio» don Peppino, della rivisita «Madre», alcuni parroci di periferia e di confine, uomini di fede profondissima, vecchi partigiani coraggiosi, annunciatori di un Vangelo che non ammetteva compromessi e cedimenti - e di laici ai quali interessava coniugare al meglio fede, umanesimo nuovo e politica.

DI TANTI DI QUESTI bresciani eccellenti Tina Anselmi mi parlò quando mi accolse a Castelfranco, nella sua linda casetta in cui si respirava il sapore delle cose sincere e della più schietta verità. Don Pasini, allora il mio direttore, mi aveva spedito in Veneto chiedendomi di intervistare «quella donna che per prima aveva vinto la ritrosia di un apparato maschilista consolidato conquistando il titolo di Ministro».

Fu un incontro lungo e cordiale, ricco di ragionamenti che mostravano il buon sapore della politica vera, non contaminata dalla rincorsa al potere, «quella che noi, noi venuti dalle fila dei partigiani e artefici della scrittura della nuova Costituzione - disse l’onorevole Tina – dobbiamo spiegare ai giovani perché siano essi stessi i testimoni di un tempo nuovo, di una rinascita delle coscienze, del superamento della barbarie estremista, rossa o nera, senza distinzione alcuna».

Con la semplicità della massaia abituata alle cose semplici, mi raccontò la sua vita «normale fin quando scoprii che c’era un ambito politico che richiedeva impegni, ideali, coraggio e disponibilità per essere davvero al servizio della gente, soprattutto dei poveri che chiedevano aiuto e lavoro. Allora Gabriella, che era il mio nome di partigiana giovane e disposta a tutto pur di far trionfare libertà e democrazia, tornò a essere solo Tina, giovane di belle speranze alla ricerca di giustizia sociale e di una politica che riempisse di sogni realizzabili il tempo dei giovani».

LA TINA ANSELMI che conversava senza porre limiti alle domande e alla curiosità era la stessa diciassettenne che, armata di fede e ideali che immaginavano libertà per tutti e l’avvento di un nuovo umanesimo, si ribellò al fascismo diventando postina e galoppina dei partigiani; la giovane maestra che decise di mettersi al servizio della politica scegliendo di militare attivamente enelle file della Dc, partito di cattolici, ognuno rappresentativo di storie popolari e portatore di nuove speranze, ciascuno forgiato alla scuola della dottrina sociale della Chiesa, molti salvati dal fascismo avendo trovato sulla loro strada l’azione illuminata di un prete bresciano, quel Giovanni Battista Montini destinato a diventare Papa Paolo VI, tutti solidali con Alcide De Gasperi, il segretario del partito che nel suo modo di essere aveva posto l’idea cristiana. «Eravamo la Democrazia Cristiana - spiegò -, pieni di idealità, ancorati a saldi valori, poveri ma felici di misurare le nostre azioni non col bilancino delle convenienze ma col peso gradevole del Vangelo».

Rividi Tina Anselmi a Brescia in diverse occasioni. Mi restarono impresse la sua compostezza e le lacrime versate passando, nella semplice veste di attivista della Cisl, davanti alle vittime della strage fascista di piazza Loggia salme; mi impressionò la forza con cui, in un lontano 25 Aprile, quella volta col titolo di «onorevole», difese proprio in piazza Loggia, di fronte a migliaia di bresciani, le ragioni della libertà e la forza della verità; mi fece sentire orgoglioso di conoscerla, averla intervistata e considerarmi suo amico quando, insieme a Benigno Zaccagnini e agli amici che tentavano di rinnovare la «vecchia» Dc, si schierò per affidare a Mino Martinazzoli la Segreteria nazionale del partito; non mi stupì di saperla insignita del premio «Articolo 3»; mi confermò la sua forza quando, sfidando le ire di una classe politica ancora maschilista, propose al Parlamento di votare una legge sulle «pari opportunità», l’unica in grado di aprire la politica e le istituzioni alle donne; mi commosse quando annunciò che a causa di acciacchi e anni accumulati non ce la faceva più a stare nella mischia e che il suo rifugio, da lì in avanti, sarebbe stato la casa di Castelfranco, «sempre aperta agli amici – scrisse in una pagina del diario -, ma chiusa a ogni sollecitazione a restare».

Adesso spero per lei un viaggio felice verso quel Cielo che ha sempre tentato di colorare d’azzurro e di riempire di speranza. Ne ha pieno diritto. Lo ha conquistato mettendo i suoi anni più belli a disposizione del suo Paese e della sua gente, riempiendo di parole profetiche il suo tempo, trasformando il vangelo in pane quotidiano.

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