INTERVISTA

Michele Astori

«Televisione, cinema, radio Fedele alla linea dell'ironia»

Un passo alla volta, un tassello dopo l'altro. Senza limitarsi. Scrittore, sceneggiatore, produttore, conduttore. Dai primi documentari ai Nastri d'Argento, dalla televisione alla radio. E il cinema: ultimo successo «La primavera della mia vita», il debutto cinematografico di Colapesce e Dimartino che ha co-sceneggiato e che sta sbancando il box office. «Una soddisfazione grande», sorride Michele Astori. Un po' bresciano un po' palermitano, le due anime di un talento che sa calibrare i registri: ieri su Capital ha aperto la sua trasmissione con l'inseparabile Pif, «I sopravvissuti», giocando all'imitatore. Salvo ricordare subito dopo la figura ispiratrice di Maurizio Costanzo, il suo impegno contro la malavita e il suo ruolo fondamentale per la riuscita de «La mafia uccide solo d'estate»: «A lui devo il mestiere che faccio. Purtroppo per lui, ho cominciato frequentando la sua scuola per autori. E un passo alla volta...»...

Un tassello dopo l'altro, ha messo a frutto nel mondo della cultura e dello spettacolo la sua brescianità e la sua sicilianità. Mondi differenti?
Diversi anche se complementari, sì. Mio papà Domenico aveva un forte attaccamento alle sue origini manerbiesi, per quanto in Sicilia si trovasse benissimo. Aveva in progetto di tornare a casa, prima o poi, ma la sicilianità l'aveva preso dentro, qualcosa l'aveva reso isolano. Non aveva mai perso l'accento di Manerbio, comunque.

E lei?
Venivo corretto per l'inflessione, quando mi veniva quella milanese decisamente s'incazzava. Mi dava lezioni di lingua bresciana.

Punti di contatto fra le due anime?
Il palermitano è più accogliente, il bresciano appare diffidente, spigoloso, ma se trovi il canale giusto si apre ed è estremamente conviviale. Per me la Lombardia è sinonimo di godereccio. Merito di mio padre, che vendeva vino. Ho negli occhi l'immagine di grandi tavolate, si beveva e si mangiava tutti insieme. Ritrovi che nascevano anche da ricerche: andammo a San Martino in Beliseto per la faraona alla creta, in provincia di Cremona. Giravamo nel Bresciano... Un trionfo di sapori. Papà era un grande cuoco. È morto un anno fa. Mia mamma Amelia, invece, è mancata quando io avevo 14 anni.

Viveva nel Bresciano?
Sì, fino alla terza media. Mia zia Luisa, in città, è stata per me una seconda mamma. Mio padre ha lasciato grande libertà ai figli, io e mia sorella abbiamo goduto di una sorta di autogestione. Papà ci seguiva e aiutava, mia zia è stata una presenza costante. Diffidente ma tenera. Non mi è mancato mai niente, quando studiavo a Roma ricevetti una super mancia da migliaia di euro. La zia era l'ala sinistra della famiglia, mio papà invece un liberale tendente a destra.

A Roma dopo la laurea in Scienze della comunicazione è diventato autore di successo, ma per quest'anno la Capitale della Cultura è Brescia.
E questa per me è una grande gioia. Tornerò a godermi questa metamorfosi della città, a cui sono tanto legato. Mia zia abitava in via Castellini, quando mi affacciavo dal suo balcone e scorgevo quella che per me era la Collina del Cane mi dicevo «Sono a casa». Sono un grande passeggiatore, ho la patente ma non guido: mia moglie guida, le mie fidanzate guidavano, io non ho mai messo in pericolo la vita di nessuno, mi metto al volante solo in caso di estrema necessità. Ecco, da questo punto di vista Brescia come Palermo è perfetta.

Cos'è Brescia a piedi, per lei?
Nei miei ricordi è soprattutto superare piazza Arnaldo per andare in pasticceria, entrare da Zilioli e gustarmi un cannoncino. Io sono un uomo diviso fra cannolo e cannoncino. Poi mi dirigevo verso il centro, piazza Loggia, passando dal Libraccio: il mio mondo. Lì cercavo rarità fuori catalogo, passavo i miei pomeriggi a caccia della pepita nascosta... Tutte cose che voglio rifare. È vivere.

La sua carriera autorale è stata un'evoluzione costante, dalla storia alle storie. La tappa fondamentale?
Sono passato dai documentari al cinema, ma la grande scoperta è la radio: mi ha aperto un altro mondo. Radio 2, ora Radio Capital. Mi ha permesso di tirare fuori una parte di me che normalmente rimane nascosta: quella votata al divertimento, al libero cazzeggio.

Radio Capital appare un luogo di libertà.
Sì. E sento la bella responsabilità del rapporto diretto con gli ascoltatori. Non puoi mentire, in radio: se la tua voce ha un'incrinatura lo capiscono, se ti sei svegliato storto lo sentono. Porti te stesso. Di base c'è sempre un elemento di verità. In radio ho ritrovato lo spirito guascone che avevo da ragazzo e che in programmi improntati alla serietà avevo perso. Una cosa magica. «Cos'avevi oggi?», mi hanno chiesto gli ascoltatori a volte cogliendo un mio stato d'animo diverso dal solito. Se ne accorgono loro anche prima di me.

Un incontro che le ha cambiato la vita?
Uscito dalla scuola di Mediaset sono stato chiamato da Mario Gerani, produttore con cui lavoro ancora, per un progetto che aveva come capoautore Davide Savelli, poi mio testimone di nozze. Ho incontrato tante personalità diverse, Lucia Annunziata, Pierluigi Battista, Giuseppe Cruciani. Gli inizi con Giancarlo Santalmassi sono stati fondamentali. Ho passato due anni lavorando a un programma, «A schiena dritta»; preparavo interviste. Mi ha insegnato i segreti del mestiere, infondendomi fiducia nelle mie potenzialità. Si fidava molto, Santalmassi, e sapeva essere chiaro. Una volta, rientravo dalle ferie, presentai la scaletta di una puntata e lui la lesse, alzò lo sguardo e disse «Qui c'è un problema, o hai fatto troppe vacanze o ne hai fatte troppo poche». Dovevo far meglio.

Il legame con Pierfrancesco Diliberto?
Forte. Pif ha convinzioni, sposa temi e ne fa battaglie. A differenza mia ha la capacità di indignarsi. Io sono frenato dal cinismo.

Nel solco di Ennio Flaiano.
Un complimento che mi fa lei, io non mi sarei permesso di citarlo. L'indignazione presuppone fiducia, io sono sul versante del disincanto.

Non la sorprende nemmeno l'exploit del film con Colapesce e Dimartino?
Sono molto contento che il pubblico mostri di apprezzare questo film anarchico e un po' folle, cogliendone appieno lo spirito.

A proposito di anarchia, follia e creatività: Totò o Monty Python?
Totò vince sempre. Per citare Vincenzo Mollica, io sono di religione monototoista.

«L'altra domenica» o «Saturday night live»?
«L'altra domenica». Siamo tutti figli illegittimi di Renzo Arbore. Indimenticabili le gite in macchina alla domenica cantando le canzoni di «Quelli della notte» e «Indietro tutta». Mi ritrovo in un suo grande pezzo, «Tu vecchia mutanda, tu».

Raimondo Vianello o David Letterman?
Vianello.

Primo mito cinematografico?
Jack Nicholson, prima di innamorarmi del cinema di Woody Allen. Da bambino. giocavo a girare «Shining» con la videocamera.

Con chi le piacerebbe lavorare?
Con Arbore.

Nuovi orizzonti?
Ho scritto molta commedia, scherzo parecchio e penso che l'ironia ci salverà, non mi prendo mai prendo troppo sul serio. Ora vorrei misurarmi con un linguaggio più drammatico. Sperimentare ancora.

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